Gen 12,1-4;

1Cor 19,16–19.22-23;

Lc 9,57–62.10,6

 

La liturgia della Parola della Solennità di S. Colombano indica in Abramo, quale padre nella fede, la figura che permette di interpretare la vicenda spirituale del Santo Abate.

Nella pagina della Genesi, che noi conosciamo come la vocazione di Abramo, c’è una parola che per ben quattro volte ritorna: “benedizione”.

Dice il Signore ad Abramo: 1. Ti benedirò… 2. Possa tu essere una benedizione. 3. Benedirò coloro che ti benediranno. 4. In te si diranno benedette tutte le famiglie della terra…

Sta qui il motivo per il quale Abramo è chiamato ad uscire dalla sua terra, dalla sua parentela e dalla casa di suo padre. Egli diventerà benedizione per tutte le famiglie della terra. Una missione, la sua, capace di generare.

Intravvediamo così la forza dell’obbedienza della fede: essa genera una identità nuova in chi la vive e fa rifiorire la vita in chi lo riconosce benedetto. La contaminazione avviene quando, venendo a contatto con l’uomo di Dio, riconosci che qui sta l’opera di Dio. In lui vedi l’umanità esaltata al suo massimo splendore. Nel suo compimento. E questo trasforma la vita anche di altri.

Pensiamo a quanto sia stato vero per Colombano: quanti uomini furono affascinati dal suo stile di vita, dalla sua fede e lo seguirono. Ed è straordinario il fatto che questo stuolo di monaci provenisse da culture, popoli, paesi e lingue diverse. Eppure questa differenza di provenienza non ha impedito loro di riconoscere in questo monaco irlandese e nei suoi compagni la benedizione di Dio. Come a Pentecoste ognuno lo poteva sentire parlare alla sua vita, nella sua lingua. L’essere pellegrino in nome e a favore di Cristo lo rendeva presenza della sua opera.

Anche S. Paolo scrivendo ai Corinzi dice: annunciare il Vangelo per me “è una necessità che mi si impone”. Il Vangelo parla in me e attraverso di me, potremmo dire, più e oltre la mia coscienza. Colombano attraversando l’Europa porta il Vangelo, non sé stesso, e lo porta offrendolo gratuitamente. Semplicemente con la sua persona e la sua esistenza donata.

Allora dovremmo ricomprendere il senso della vera devozione ai Santi. La devozione a S. Colombano, che in questi giorni si esprime in un insieme di celebrazioni e gesti, ci deve condurre a riconoscere in lui la benedizione di Dio, perché solo così anche in noi rifiorisce il desiderio alla santità, la volontà di intraprendere il cammino di sequela dietro a Gesù.

Chiediamoci: cosa di quello che è avvenuto in lui io desidero e cerco che accada anche in me?

La devozione dei santi ci ricorda che l’offerta si salvezza ci raggiunge attraverso l’altro. L’altro/a è una benedizione attraverso i doni che mi testimonia. E questa è la sconfitta dell’invidia che spinse Caino a uccidere il fratello Abele. Ogni volta che in noi si fa strada l’invidia e ci cattura, ci chiudiamo rispetto all’offerta di bene che il Signore ci vuole riservare. Il patire, piuttosto che il gioire, i doni presenti nell’altro ci induce ad eliminarlo, a sentirlo come ostile.

Allo stesso modo, chiusi nella stessa logica (mortale) noi stessi non riconosciamo che quello che abbiamo e che siamo non è ‘nostro’, ma per tutti. La benedizione di Dio è transitiva: ci raggiunge e ci attraversa per raggiungere gli altri.

Allo stesso modo di Abramo, anche Colombano esce dalla sua terra, dal suo mondo per intraprendere un cammino senza una destinazione precisa. Diventa pellegrino. Non girovago. È vero che non ha una meta, ma è certo di essere condotto dal Signore per il quale si è messo in cammino. In questo suo profilo spirituale possiamo e dobbiamo raccogliere un’indicazione preziosa anche per noi. Noi siamo figli della cultura dei progetti: progettiamo di fare, di raggiungere obiettivi, luoghi, traguardi professionali e posizioni sociali. Colombano (allo stesso modo di Abramo) parte verso luoghi che il Signore gli farà vedere, che gli indicherà. La meta non è stabilita in partenza, è riconosciuta quando viene raggiunta, anche se sarà comunque provvisoria. È quello che ci invita a fare papa Francesco: avviare processi, lasciandoci condurre. È quanto anche noi come Chiesa stiamo iniziando: un cammino sinodale il cui esito sarà l’opera di Dio in noi e grazie a noi.

Insieme c’è un altro aspetto presente nella scelta di partire, di uscire dalla propria terra, dalla casa del padre, dai legami familiari. Quell’‘uscire’ richiama una nuova nascita. Ciò che si lascia ha il sapore del nido caldo e rassicurante del grembo materno. Eppure per avere un nome, perché la propria identità personale e comunitaria possa prendere forma è indispensabile quella rottura, quello strappo che ha in sé qualcosa di doloroso. Ma noi sappiamo che è proprio così che avviene nella vita: quando c’è una vocazione di consacrazione, nello sposarsi (fin dal momento in cui si inizia un rapporto di coppia), quando si intraprende una qualsiasi impresa… lasciare è la condizione per crescere, per dare vita a ciò che si apre davanti a noi.

Dio opera proprio quando il credente consegna la vita nelle Sue mani e si lascia condurre perché la propria persona si intrecci con la vicenda di altri dai quali si può ricevere benedizione e, a nostra volta, si può diventarlo per tanti fratelli e sorelle, pellegrini con noi e come noi lungo le strade della vita.