Pro 2,1-9
Gl 3,12-17
Mt 19, 27-29

La Chiesa ci indica in Benedetto un patrono, una via di santità che ci custodisce nell’autentica fedeltà al Signore. Noi abbiamo bisogno di questi fari che non possono essere ridotti a puri esempi da imitare. In loro noi possiamo trovare le tracce che ci consegnano una direzione su cui incamminarci, la conferma della bontà della sequela, la creatività dello Spirito, capace di dare vita in ogni tempo a cammini originali di carità e di fede.
Nella Regola, che alla fine Benedetto definisce ‘minima per principianti’, è chiaro come il valore non sta nell’osservanza materiale di quanto previsto, ma nell’aprire alle alte vette della carità. Benedetto consegna alla vita cristiana la necessità di far propri gli strumenti – di cui abbiamo bisogno- perché cresca l’amore di Cristo.
Può sorprendere che in essa si trovino indicazioni riguardanti comportamenti o ambiti – ci verrebbe da dire- di poco conto. In realtà in questo cogliamo una grande verità: che la vita (così pure quella cristiana) si qualifica nei dettagli, grazie alla delicatezza che sa dare peso ai particolari. A me piace ribattere all’espressione molto frequente: ”cosa c’è di male?”, con un’altra domanda: “che cosa c’è di bene…..?”
Attraverso i suoi monaci Benedetto consegna un’indicazione tutt’altro che scontata: le grandi scelte che qualificano un’esistenza credente non appartengono necessariamente a momenti cruciali, se non – in tal caso- perché preceduti da piccoli e quotidiani passi di fedeltà, dalla cura delle cose, dagli impegni ordinari .
All’inizio della sua Regola Benedetto precisa a chi si rivolge: a coloro che intendono il monaco dentro un cenobio (cioè in una relazione fraterna quotidiana), e guidati nel servizio “sotto una regola ed un abate”(RB1).
Abbiamo sentito S. Paolo che scrive ai Colossesi invitando i cristiani di quella comunità ad assumere sentimenti di carità reciproca, dai tratti molto concreti e precisi: tenerezza, bontà, umiltà, mansuetudine, magnanimità…uniti a capacità di sopportazione e di perdono. Benedetto scrive: ”Si prestino a gara obbedienza reciproca”. E’ un’espressione forte perché normalmente l’obbedienza è riservata a Dio e ai superiori. Benedetto afferma invece che c’è un’autorevolezza nell’altro che ti è posto accanto e attraverso il quale la volontà di Dio si può manifestare. E ciò a motivo del fatto che la vita fraterna e comune è profezia eloquente della novità pasquale, della vita non più radicata in sé e nella propria umanità, ma trasformata da Gesù e in Lui.
Non siamo chiamati alla pace attraverso un processo di isolamento, di presa di distanza da ciò che ci circonda, da ciò che può inquietarci o disturbarci. S. Paolo sottolinea che la pace si dà “in un solo corpo”. La pace di Cristo si dà dentro al corpo che è la Chiesa nel riuscire a vivere relazioni pacificate. Non è un segreto che anche nei monasteri -siano essi maschili che femminili- la vita fraterna comunitaria è un cammino, non è un traguardo raggiunto. Perché per prima cosa  il “lasciare tutto” non avviene all’inizio di un cammino di discepolato (o se vogliamo quando si entra in monastero-in seminario-in convento…… o quando ci si sposa). Quello è solo l’inizio di una spogliazione: ci si può rivestire della carità a condizione di abbandonare ciò con cui, di volta in volta, noi tendiamo a ricoprire le nostre nudità, cioè la nostra umanità. E’ questa la funzione salvifica della presenza dell’altro/a nella nostra vita. E allora far propria la condizione del servo (il monaco come ogni discepolo è chiamato a servire) chiede, accanto all’obbedienza verso la fraternità che è data in una precisa comunità, nelle relazioni che non si scelgono, anche l’obbedienza all’abate. Nella tradizione monastica egli rappresenta il richiamo alla paternità. Ci sono indicazioni molto precise (ed esigenti) nella Regola per l’Abate, che lo richiamano alla grande responsabilità che gli è affidata nell’ordine della fede: di essere investiti della funzione ‘sacramentale’ a favore della comunità e di ciascuno dei monaci a lui affidati.
La paternità dice che la sequela chiede un affidamento, e allo stesso tempo che è una vita ricevuta da Dio attraverso strumenti umani. Per niente perfetti (nessun abate-badessa ….. o vescovo lo sono), e tuttavia necessari, perché la grazia di Dio ci raggiunga in una forma mediata, che oltrepassa le qualità personali di chi è posto in autorità.
Chiediamo per tutti noi, alla scuola di Benedetto e della tradizione monastica, di essere guidati sulla via delle cose di tutti i giorni per cogliere che qui si possono incarnare i sentimenti e i comportamenti che furono in Gesù, perché in noi tutto avvenga nel nome del Signore Gesù, rendendo grazie per mezzo di Lui a Dio Padre.