Ci siamo così abituati alle parole dell’ultima cena di Gesù e che ripetiamo nella celebrazione della Messa da averne forse perso la straordinaria pregnanza: “Questo è il mio corpo, che è per voi; fate questo in memoria di me”. Così le riporta s. Paolo scrivendo ai Corinzi. Gesù dichiara solennemente: il corpo è mio ma è per voi, non mi appartiene. Parole che sconvolgono ogni visione ideologica che parla, al contrario, di possesso. Di un corpo che non deve rispondere a nessun altro che a sé stessi. Da dove nasce questo modo di pensarsi di Gesù?

Le parole del vangelo secondo Giovanni riassumono efficacemente l’autocomprensione di Gesù: “Sapendo che il Padre gli aveva dato tutto nelle mani e che era venuto da Dio e a Dio ritornava (…)”. In Lui è chiara la sua origine (era venuto da Dio), come pure il senso, vale a dire verso dove stava andando (e a Dio ritornava). Tra il passato e il futuro il presente si precisa: il Padre gli ha dato tutto nelle mani.

Ciò che sta per fare, ciò che le sue mani stanno per compiere è incluso in questo abbraccio del Padre.

In quelle mani che si stanno piegando su piedi sporchi c’è il Padre che opera nell’Amore. Il gesto di Gesù è il venire di Dio che tocca un corpo di per sé ripugnante (come sono dei piedi sporchi). Dal momento che nessuno tra i discepoli si era considerato così ultimo dei servi da compiere quel gesto, Gesù ci rivela che i piedi sporchi li lava solo l’Amore di Dio. È Lui che si avvicina all’umanità che ci viene da coprire e nascondere. E (forse) è l’unico Amore dal quale siamo disposti a lasciarci avvicinare.

Il gesto della lavanda dei piedi che verrà ripresentato, richiama la contemporaneità delle parole e del gesto di Gesù. In questa liturgia laverò i piedi a dei genitori che nel corso di questo ultimo anno hanno dato la vita ad un figlio o lo stanno facendo. “Questo è il mio corpo, che è per voi” è quanto un uomo e una donna dicono al figlio che viene alla luce. Da quel momento vengono espropriati del proprio corpo, del proprio essere e del proprio tempo: è mio, è nostro ma è per voi! Dare la vita equivale a generare e, insieme, ad anteporre il figlio a sé stessi. Dare la vita non si esaurisce con il parto, ma da quel momento è atto permanente che vive nella speranza che colui/colei che è stato generato giunga a dire la stessa cosa verso qualcun altro (“come ho fatto io…”). L’atto generativo è scritto nel nostro corpo fin dal suo concepimento.

Oggi la crisi della generatività, della fecondità non può essere separata dalla visione oblativa, eucaristica della vita e dell’amore. Generare è partecipazione all’agire di Dio, in modo particolare come si è manifestato nella persona di Gesù. Nella sua Pasqua.

C’è urgenza che avvenga quello che di recente il card. Zuppi ha chiamato la “sterilità guarita”. La crisi della natalità rischia di essere solo uno dei sintomi di una ‘senilità culturale’. Quando una generazione smarrisce la bellezza e la gioia della fecondità coltiva una cultura che non ha futuro, perché sterile.

Durante la cena Gesù: “si alzò da tavola, depose le vesti, prese l’asciugamano e se lo cinse attorno alla vita”. È raccolta la condizione richiesta, che non si improvvisa, per giungere a lavare i piedi. In questo gesto solenne con il quale Gesù riveste l’abito del servo è racchiusa ogni forma di servizio alla vita. La vita è una, anche se molteplici sono le sue stagioni. Non si diventa servi se non si è disporti a deporre l’abito del rincorrere un’eterna giovinezza senza responsabilità. Nell’inno della lettera ai Filippesi di Gesù è detto che “non ritenne un privilegio l’essere come Dio, ma svuotò (spogliò) sé stesso assumendo una condizione di servo (…) umiliò sé stesso facendosi obbediente fino alla morte e a una morte di croce” (Fil 2, 6b-7a.8). Ogni servizio alla vita è possibile in una disponibilità a morire. Ma si tratta di una morte che dà vita, anche a sé stessi: nell’atto di generare si è rigenerati a propria volta.

Il Signore sostenga le esistenze eucaristiche di questi genitori e, anche attraverso la loro testimonianza gioiosa, susciti il desiderio e la decisione in molti fratelli e sorelle di trasformarsi in dono. Perché uniti a Gesù possano dire: “questo è il mio corpo che è per voi”.