“Liberi di scegliere se migrare o restare”: è il tema di questa 109a Giornata mondiale del Migrante e del Rifugiato. La Conferenza episcopale italiana ha scelto la nostra regione per le celebrazioni e Piacenza per questa celebrazione eucaristica, alla quale partecipano migranti giunti da diverse diocesi che saluto e ringrazio. Scelta anche in onore di Artemide Zatti e Giovanni Battista Scalabrini che un anno fa papa Francesco ha dichiarato santi. Il salesiano Sant’Artemide Zatti, figlio di migranti, matura in quel contesto familiare di precarietà, povertà e nell’esperienza personale di sofferenza la dedizione ai sofferenti, alle persone più fragili e indifese; il vescovo san Giovanni Battista Scalabrini, a cui di attribuisce il titolo di “padre dei migranti”. Testimoni che anche nei fenomeni più drammatici, come la migrazione, fiorisce santità. In questa cattedrale è custodita, insieme alla sua salma, il carisma di mons. Scalabrini: Vescovo di Piacenza, con una paternità pastorale che viaggiava sulle navi cariche di tanta speranza, che accompagnava tanti uomini e donne che cercavano una vita migliore e più dignitosa nelle Americhe.
Vogliamo in questa celebrazione raccogliere i tantissimi cammini intrapresi, quelli interrotti drammaticamente in terra o in mare, quelli approdati che attendono di essere completati nell’accoglienza e in una vita dignitosa.
Invochiamo la benedizione del Signore sulle mani che, tese, stanno afferrando e stringendo le speranze di altre mani, che invocano, insieme al pane, fraternità. E chiediamo perdono per i nostri silenzi e per tutte le nostre colpevoli cecità, sordità, indifferenze.

OMELIA

Is 55,6-9
Fil 1,20c-24.27°
Mt 20,1-16

“Perché i miei pensieri non sono i vostri pensieri, le vostre vie non sono le mie vie. Oracolo del Signore”. Facciamo i conti continuamente con questa differenza, così come immaginiamo di superarla nel piegare il Signore ai nostri pensieri. Siamo convinti che sia Lui a dover assecondare i nostri criteri, le nostre valutazioni. Per questa ragione ogni domenica, come sta accadendo oggi, il Signore ci raggiunge con una Parola che ricorda tale differenza ed insieme la necessità (e la bellezza) di convertirci a Lui. L’invito è di entrare nel suo Regno, che è simile a…
Abbiamo sentito l’ennesima parabola, che Matteo colloca dopo il discorso di Gesù sulla ricompensa promessa a chi ha lasciato tutto: e noi, che abbiamo lasciato tutto, che cosa ne avremo? Gesù risponde: chi ha lasciato…  “riceverà cento volte tanto e avrà in eredità la vita eterna”. E anticipa che ci sarà un capovolgimento: “Molti dei primi saranno ultimi e molti degli ultimi saranno primi”.
Ecco la parabola, che per la prima parte richiama una scena familiare: la ricerca e l’offerta di lavoro. Prima di concentraci sulla conclusione della parabola, soffermiamoci su questo ‘padrone di casa’ che continua ad uscire per prendere a giornata lavoratori per la sua vigna, a tutte le ore. In questo comportamento, che non sappiamo bene se al tempo fosse consueto e se fosse alla fin dei conti conveniente, si manifesta la sua tenacia nel cercare pazientemente l’uomo per dargli ciò che il lavoro rappresenta, cioè la dignità e per garantire a ciascuno condizioni per vivere.
Allo stesso modo vi leggiamo l’invito rivolto al lavoratore (cioè a chi legge la parabola) a non lasciar cadere le opportunità che gli sono offerte. Non è mai scaduto il tempo, c’è una nuova opportunità che ci aspetta. La pagina evangelica mette in guardia dall’assecondare in noi la rassegnazione dell’avverbio “ormai”. Cioè il lasciar abitare l’atteggiamento sconsolato e sfiduciato, che ci fa chiudere ‘per fallimenti’. Ciascuno deve combattere le diverse forme di rinuncia, che nascono dal pensare di essere inesorabilmente nella lista degli sfortunati. Confermati che non ci sia posto per noi.
In positivo, ci viene assicurato che siamo sempre in tempo per fare qualcosa lì dove c’è bisogno anche di noi, per aprire cuore e casa a chi bussa alla nostra porta. C’è tempo per essere ingaggiati per il Regno di Dio, per metterci in gioco, per rispondere agli appelli del Signore: questo è il mio tempo, la mia ora. Questa chiamata non la posso lasciar cadere.
Giungiamo così all’esito della parabola, che riguarda la ricompensa: siamo di fronte ancora una volta ad un pensiero di Dio a noi lontano. All’interno della parabola stessa c’è un’esplicita contestazione del modo di fare del Signore. Non è accettabile. E chi lo afferma sono quelli della prima ora, in definitiva siamo noi, quelli più vicini, più fedeli (“… e noi che abbiamo lasciato tutto?”, chiedono i discepoli). Siamo noi quando marchiamo quell’aver lasciato tutto… l’aver “sopportato il peso della giornata e il caldo”. Quando cioè la fatica prende il sopravvento sulla gioia di seguire il Signore e di amare. Allora, senza neanche il pudore di celare, avanziamo maggiori diritti rispetto agli altri. Il pensiero di Dio è indubbiamente poco sindacale, poco difendibile, perché non segue la logica dello scambio, non sancisce l’equità che abbiamo in mente noi: io ti do e tu mi devi dare… La contestazione all’agire del padrone della vigna (peraltro ineccepibile) maschera il confronto, il giudizio sugli altri. L’accusa si può sintetizzare con le parole: “tu mi tratti allo stesso modo”. È il rivendicare meriti piuttosto che essere grati di essere stati scelti. Piuttosto che gioire che altri siano stati finalmente raggiunti dalla chiamata del Signore.
Il Signore scardina la logica presente nella ricompensa ‘dovuta’ (“Mi deve ripagare per ciò che ho fatto”), e la sostituisce assicurando ciò che ha promesso: a tutti garantisce ciò che è necessario per vivere, vale a dire il lavoro – che, come abbiamo visto, dà dignità – e quanto basta per il sostentamento. E lo fa a partire da ciò che ognuno può dare, dall’ora nella quale è stato intercettato. Il “centuplo e in eredità il Regno” è molto di più di ciò che hai lasciato, molto di più della tua fatica. Nella ricompensa che il Signore assicura a chi lo segue, a chi risponde alla sua chiamata a mettersi al servizio del Regno, c’è un di più che va oltre un criterio di giustizia retributiva. È la partecipazione al suo Amore.
Sentiamo rivolte anche a noi le parole del padrone: «Oppure tu sei invidioso perché io sono buono?», che potrebbe esser letto altrimenti: «O forse il tuo occhio è cattivo perché io sono buono?». Chiediamo che il Signore ci liberi dal pericolo che la nostra vista si annebbi a motivo della sua bontà, per concederci che il nostro occhio sia conforme all’occhio di Dio, che ha uno sguardo di misericordia e di fiducia. Uno sguardo di tenerezza.

Cattedrale di Piacenza , 24/09/2023