Solennità di S. Antonino

Basilica di S. Antonino – 04.07.25

Ap 12,10-12a

1Pt 3,8-18

Gv 6,51-58

S. Antonino ci convoca per celebrare ciò che rappresenta un punto di incontro, un’esigenza di unità che supera le inevitabili differenze che ogni tessuto umano e civile vive al suo interno. La festa patronale è accettare, al di là delle singole appartenenze, che ci sia un’istanza superiore che ci permette di superare ogni particolarismo. Questo principio è di tipo religioso, morale, ideale ed è identificato con la vicenda di una persona, riconosciuta per la sua esemplare santità. Nel nostro caso si tratta di Antonino: un laico, soldato, oggi lo chiameremmo, un servitore dello Stato. Apparteneva ad una Legione scelta, che oggi sarebbe collocata tra i Corpi speciali. Accanto alle imprese sul campo, questa Legione espresse la sua grandezza morale nel coraggio di compiere un atto di disubbidienza: il rifiuto di eseguire il comando di uccidere delle persone per la loro appartenenza religiosa. Una vera e propria obiezione di coscienza. La ‘retta coscienza’, come la chiama S. Pietro, coincide con la volontà di essere a servizio di tutti, per il bene comune. La coscienza è retta quando non compromette il futuro a nessuno. Al punto che quando un ordine va contro a ciò che la coscienza custodisce, allora quel bene prevale anche a costo della vita. Una lezione sempre attuale che da una parte dice come ognuno opera a favore non solo del proprio bene, ma del bene comune, e dall’altra che c’è qualcosa di inviolabile che deve essere salvaguardato, che può valere più della propria vita. Mai a scapito della vita altrui. Per questa ragione non ci si può nascondere dietro a nessuna giustificazione del tipo: “mi è stato comandato…”.

Da poco siamo stati invitati ad esprimere un parere sulla legge della cittadinanza. Al di là dell’esito referendario, rimane un argomento di pressante attualità. Ad una lettura superficiale potrebbe risultare di poco conto: banalmente, qualche anno in più o qualche anno in meno nel riconoscere la cittadinanza a chi arriva nel nostro paese è così rilevante? Forse dipende da quale parte si guardi la cosa. Ma la questione seria che non può né deve essere sottovalutata è proprio la cittadinanza. Si tratta, in estrema sintesi, del riconoscimento dato alle persone dei diritti civili, amministrativi, politici, uniti ai doveri che derivano dall’appartenenza ad una nazione. La cittadinanza ruota attorno alla condizione di un cittadino che è parte a tutti gli effetti di uno Stato: ne beneficia perché ne difende l’integrità. Della stessa radice dell’appartenenza c’è la partecipazione, l’essere parte, l’avere parte. L’appartenenza si fonda sul riconoscimento comune di un fondamento (la Costituzione) e di un legame da costruire attraverso il rispetto delle leggi.

Dobbiamo porci la domanda su come operiamo per far sentire parte della comunità chi arriva tra noi. Sappiamo trasmettere la responsabilità verso i diritti e i doveri che tutti abbiamo con lo Stato, con la città, con il territorio. Quali sono le strade per apprendere la grammatica della cittadinanza (attiva)? Quali condizioni favoriscono la crescita del senso civico? Ogni volta che trasmettiamo il valore del rispetto delle leggi e di tutte le regole noi creiamo condizioni per favorire una buona cittadinanza. Ma se siamo alla ricerca del modo di aggirarle o di eluderle, seminiamo una cultura che mina la logica della convivenza. Facciamo prevalere l’interesse di parte o di sé stesso.

Ad essere onesti fino in fondo, ci dobbiamo chiedere come le nostre nuove generazioni, quelle che acquisiscono la cittadinanza dalla nascita, stanno crescendo nel senso di appartenenza, nella coscienza del valore civico e dei diritti che hanno e che possono e devono esercitare. Pensiamo ad esempio al diritto di voto. Pensiamo ai diritti che credevamo acquisiti come quello allo studio, alla salute, al lavoro, alla casa. Ottenere il riconoscimento con un passaporto basta per far sentire qualcuno parte e responsabile di una comunità?

Credo sia da mettere al centro delle nostre azioni educative verso le nuove generazioni, insieme alla fiducia, la crescita del senso di appartenenza al tempo e al luogo nei quali si trovano. Le appartenenze deboli e condizionate sono figlie della tendenza ad abitare non-luoghi più che a giocarsi in relazioni strette, dentro le quali può crescere, pur con fatica, la bellezza dell’essere parte e per questo protagonisti del proprio domani e di quello della propria comunità.

Colgo l’occasione per ringraziare per la loro presenza i rappresentanti delle altre confessioni cristiane e delle altre religioni presenti nel territorio. È l’occasione per invitarci a crescere nella corresponsabilità verso le nuove generazioni. Superiamo il linguaggio che prevede i ‘nostri’ e i ‘vostri’ bambini e giovani. Ci apparteniamo, nelle diversità che non si possono negare, nell’essere con-cittadini di una città che è spazio vitale per tutti. Dobbiamo far respirare ciò che è accettabile da ciò che non lo è. Per tutti. Sono inoltre convinto, di fronte alle diverse espressioni di disagio che i giovani hanno manifestato e stanno manifestando, che dobbiamo far intravvedere loro un futuro, una promessa per la loro vita. Ogni forma di distruzione e di violenza è la presa di distanza da qualcosa che viene percepito come estraneo. Come qualcosa che non li riguarda. Apriamo prospettive di futuro: un futuro professionale, una affermazione sociale che aiuti ad immaginare un riscatto dalla condizione di marginalità nella quale si possono trovare. Impegniamoci ad alimentare sane ambizioni, offrendo loro delle opportunità.

L’Antonino d’oro quest’anno sarà consegnato alla famiglia Vincenziana, nata dall’ispirazione di S. Vincenzo de Paoli che la pienezza di vita sta nell’operare perché al di sopra di tutto ci sia la carità. Comprendiamo che l’amore, che è sempre appassionato, si parla in tutte le lingue, che non è prerogativa di nessuna religione ed è la molla che ci fa sentire parte dell’altro e viceversa: “Chi infatti vuole amare la vita e vedere giorni felici trattenga la lingua dal male e le labbra da parole di inganno (…) cerchi la pace e la segua”, così l’apostolo Pietro. Papa Leone ai Vescovi italiani ha raccomandato: «Ogni comunità diventi una “casa della pace”, dove si impara a disinnescare l’ostilità attraverso il dialogo, dove si pratica la giustizia e si custodisce il perdono».

Ci aspetta una bella sfida, come in altri tempi quella del riscatto dalla povertà materiale e della ricerca di sicurezza economica. Oggi la sfida la possiamo cogliere nell’esigenza di comunità: dare diritto di cittadinanza a chi si affaccia (chiunque egli sia) è testimoniare la bellezza di una città che custodisce il bene per tutti e così fa sentire adeguati o inadeguati i comportamenti a partire da quanto costruisce i legami di reciproca appartenenza.