Ez 18,25-28, Fil 2,1-11, Mt 21,28-32

Oggi prolunghiamo la partecipata ed emozionante celebrazione di ieri in Cattedrale a Piacenza. Possiamo ben dire che siamo stati avvolti e coinvolti dalla santità, solo cronologicamente passata, in realtà viva e attuale.
Ieri usavo un’immagine, che non vuol essere ad effetto, dicendo che davanti a d. Giuseppe Beotti ci troviamo davanti ad una pagina di Vangelo. Perché è proprio quello che capita quando il Vangelo lo si accoglie: esso ti rende partecipe e così viene scritta una nuova pagina inedita del Vangelo di Gesù, secondo… In questo caso, secondo Beotti. Per questo motivo possiamo privilegiare in questa celebrazione il commento di questa pagina, quella della esistenza cristiana di d. Giuseppe, attraverso la quale il Signore ci parla.
Confesso che nelle ultime settimane, provando a familiarizzare con questa figura di sacerdote, morto ottant’anni fa, ho fatto un’esperienza straordinaria, che considero una grazia: di sentirlo compagno di cammino, mi sono sentito ospitato nella sua casa, nella sua vita di credente-prete. Lo ha fatto in modo discreto, come penso sia stato il suo tratto caratteristico: passaggio dopo passaggio, parola dopo parola, gesto dopo gesto. In questa celebrazione condivido con voi alcuni motivi per i quali sale dal mio cuore di vescovo, che per sé stesso non dà per scontata la fede, un ringraziamento per avermi e averci donato questo esempio di santità.
Siamo a Gragnano, nel contesto che non solo assistette alla crescita di Giuseppe, ma che divenne parte del percorso di santità che ci sta innanzi. Mi riferisco al fatto che la sua volontà di rispondere alla chiamata del Signore fu resa possibile da un insieme di protagonisti, alcuni dei quali ci sono noti, molti altri anonimi. Richiamo i nomi conosciuti: il curato, d. Faustino Grilli, che si impegna, non una tantum, ma nel tempo a contribuire alle spese del Seminario. Va ricordato che il privarsi allora delle offerte delle messe voleva dire per un sacerdote – curato, cioè senza beneficio – togliersi il necessario. E questo non lo vediamo riprodotto nella vita di d. Giuseppe, che si priva del poco che ha, non del superfluo, per aiutare chi è nel bisogno? Penso alle donne cattoliche che assicurano il corredo: un gesto squisitamente materno, che esprime la cura per le piccole cose. Pensiamo a coloro che a Giuseppe, che chiede durante l’estate un aiuto, glielo assicurano. Benefattori anonimi, ma essenziali perché Giuseppe potesse rispondere alla vocazione del Signore. Sono convinto che proprio il contesto paesano e parrocchiale, oltre che familiare, siano stati un grembo di santità. La santità fiorisce dalla vita ordinaria. In tanti piccoli gesti lui ha respirato la verità delle parole di s. Paolo: “(…) sopra tutte queste cose rivestitevi della carità…” (Col 3,14). Perché la carità è come avviare un processo che non sai dove ti porterà, ed è quanto l’Apostolo scrive: “La carità non avrà mai fine” (1Cor 13,8). La carità germogliata a Gragnano, si è compiuta a Sidolo.
Desidero poi consegnarvi un tratto della carità che d. Giuseppe ha vissuto, che preferirei evitare di chiamare eroica per riconoscerla ‘semplicemente’ come “carità di Cristo”. Ha vissuto anche lui una stagione civile, ecclesiale e spirituale a dir poco complicata. A molti, ai più, sembrava inevitabile prendere posizione, schierarsi da una parte o dall’altra. In ogni conflitto la polarizzazione è un fatto istintivo. Il nostro d. Giuseppe prende una decisione, di non schierarsi rimanendo in mezzo. Non è codardia. Forse è la scelta più scomoda, perché stare in mezzo porta ad essere potenziali vittime degli uni e degli altri. Prende la decisione di far prevalere, in quel contesto di violenza insensata, la carità, l’ospitalità. Senza distinzioni. Per tutti. Nelle raccomandazioni di s. Paolo ai Filippesi troviamo l’invito a considerare “gli altri superiori a sé stessi”. Cioè l’interesse dell’altro e per l’altro prevalente sull’interesse (umanamente comprensibile) per sé stesso. E allora, a proposito della pagina proposta dalla liturgia, vediamo come ciò che è riferito a Cristo Gesù, ancora una volta, calzi benissimo con il modo di pensarsi di d. Giuseppe: “umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e a una morte di croce”. Coincide sorprendentemente la stessa sequenza temporale, che fa coincidere Sidolo con il Calvario: a mezzogiorno esposto sotto il sole, al muro, alle tre del pomeriggio giustiziato, insieme ad altri due. Attorniati da altre vittime della medesima ingiusta condanna. La sua scelta è stata di stare nel conflitto non contro qualcuno, ma come colui che dà la vita, unito a Gesù, che lo aveva chiamato a seguirlo e a uniformarsi a Lui, il Crocifisso-risorto.

C’è una notizia della sua vicenda che mi ha fatto riflettere, legata al processo di beatificazione e che rischiava di compromettere il risultato. Ritenendo che così avrebbe voluto d. Giuseppe – è il pensiero dei suoi familiari – non fu rivelato il nome di chi era presente tra coloro che lo uccisero. Ravviso in questa decisione, dedotta dal modo di agire di d. Giuseppe, una lezione: la sua vita e la sua morte sono stati un atto di autentico amore. In quanto tale, l’amore non chiede, neanche nel tempo, giustizia. Chi ama così vuol fugare anche remotamente che sia chiesto conto al colpevole di ciò che ha commesso. Se ci pensiamo è facile che in noi si insinui il desiderio che chi ha fatto del male paghi. Prima o poi. Secondo giustizia, precisiamo. La ferita in noi invoca, in un certo senso, una soddisfazione. Che non è vendetta, ma, appunto, una domanda di giustizia. Invece, come i suoi familiari hanno visto d. Giuseppe, hanno scorto il cuore di un discepolo di quel Gesù che ama in modo così incondizionato da arrivare a pregare per i propri uccisori. Nella preghiera dalla croce (“Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno”, Lc 23,34)Gesù sembra quasi dire al Padre: non pensare neanche tu di punirli. Tu potresti. La medesima richiesta si sono sentiti rivolgere i familiari di d. Giuseppe. Così – nel pensiero dei suoi cari – cogliamo come l’amore di d. Giuseppe sia stato fecondo di carità, fin da subito. Ha contagiato chi è venuto a contato con il suo cuore.

Carissime sorelle e carissimi fratelli, custodiamo questa testimonianza perché ci fa bene. Ci fa bene per purificare il nostro pensiero inquinato dall’illusione di salvare noi stessi trattenendo la vita. Inquinato da quelle logiche che in noi non fanno la differenza cristiana.
Abbiamo bisogno di questa bella testimonianza perché nelle nostre comunità sia contagiosa la cura dell’altro, soprattutto di chi è più in necessità. In maniera gratuita e incondizionata.
Ne abbiamo bisogno perché vivere in Gesù, uniti a Lui porta ad una esistenza bella e feconda. Porta a vivere una vita piena. Frutto del suo Amore.

GRAGNANO – 01.10.23