Cattedrale – Pentecoste 2025

At 2,1-11 Rm 8,8-17 Gv 14,15-16.23-26

Se l’azione della Chiesa è generata dallo Spirito Santo, questo terzo passaggio (dopo la preparazione e la mia presenza nelle Comunità pastorali) deve rimanere sotto l’opera dello Spirito. Per questo motivo la Pentecoste è, provvidenzialmente, la Solennità più coerente con quanto stiamo avviando.

La prima e necessaria azione del Paraclito, che il Padre manda nel nome di Gesù, è di insegnare ogni cosa e di ricordare le Parole dette da Gesù. E allora, proprio in questo contesto, lo Spirito oggi ci ricorda che nella messa di avvio, un anno e mezzo fa, ci ha consegnato alcune pagine di vocazione. Egli ha continuato a interpellarci, a chiamarci in questo anno e mezzo. E ancora ci aveva invitato a cercare: il volto del suo popolo “ancora numeroso”, sicuramente ricco di passione e dedizione. Ci aveva invitato a cercare gli Atti della Chiesa piacentina-bobbiese e le pagine di Vangelo che ancora si scrivono a più mani e a più cuori. Vi assicuro che mi ha concesso la grazia di trovare, annotando in quel quaderno di storie.

Per tutto questo il primo sentimento che prevale in questa celebrazione è quello eucaristico: un sincero e profondo rendimento di grazie per le opere che il Signore continua a realizzare. Un grazie per la ricchezza degli incontri e per le relazioni cresciute tra noi. A questo proposito, al termine dei giorni di permanenza in una Comunità, una signora mi ha detto: “accogliendola avevo auspicato che potesse conoscerci meglio. Oggi riconosco che l’abbiamo conosciuta meglio anche noi”. Quante strette di mani, sguardi incrociati, lacrime consegnate e sorrisi scambiati in questi mesi! Abbiamo la certezza che la fraternità e la comunione si alimentano dentro a relazioni semplici, quotidiane. Ci è chiesto solo di dare tempo, di vivere un tempo donato.

Ora, come abbiamo sempre fatto, lasciamoci guidare dalla sua Parola per i passi da intraprendere, per il cammino che ci attende.

  1. Il volto della comunità pasquale, quando non si è ancora abbattuto il vento dello Spirito, è quello di un gruppo di discepoli che si trovano in uno spazio rassicurante. Un gruppo per il quale fuori c’è un mondo ostile. Da cui difendersi. In una tale situazione la Pasqua non è ancora avvenuta: è avvenuta solo per Gesù, ma non per i discepoli. Ma quando lo Spirito del Risorto irrompe con forza, agisce in modo che tutti e ciascuno diventano capaci di parlare le lingue degli uomini che sono lì fuori e che stanno attendendo. E ognuno comprende il Vangelo nella sua lingua. Ce lo ripetiamo da tempo che oggi c’è l’urgenza di farci capire. C’è un problema di linguaggio, e la questione del linguaggio va affrontata, perché non possiamo continuare ad accusare gli altri (ragazzi, giovani, adulti…) di essere sordi all’annuncio del Vangelo. In quale lingua parliamo loro? Riusciamo a intercettare il loro modo di codificare i messaggi, le cose importanti della vita? Presumiamo le domande o siamo capaci di ascoltare quelle che hanno in cuore e, in caso, ci preoccupiamo di suscitarle? Come moduliamo l’annuncio (non unicamente la catechesi) nelle diverse età della vita e nelle situazioni che possono essere recettive all’annuncio?

A questo riguardo una domanda ce la dobbiamo fare circa quello che abbiamo da testimoniare, da annunciare, prima ancora di come siamo chiamati a farlo. I discepoli nella prima pentecoste hanno in cuore una speranza che è passata attraverso il dramma della croce di Gesù e la loro esperienza di abbandono, la loro esperienza di fallimento. Hanno una gioia incontenibile, quella di aver incontrato il Risorto. Chiediamoci se traspare, se traspira da noi almeno un po’ di gioia per la persona di Gesù, per il Crocifisso risorto

  • San Paolo, riassumendo il cuore dell’azione dello Spirito Santo e quindi della vita secondo lo Spirito, parla dell’essere ‘figli’. Figli sono coloro che non si lasciano “dominare dalla carne”. Abbandoniamo l’identificazione carne-sessualità, che tanto ci ha fatto del male e nell’immaginario collettivo riproduce il sospetto circa il valore della nostra umanità nella sua interezza. La “carne” è qualcosa di sé, è la logica mondana che ci domina quando non riusciamo in qualsiasi argomento a lasciarci guidare dalla logica evangelica e dalla tradizione della Chiesa. Quando di fronte a un’epoca di trasformazioni veloci e disorientanti rimaniamo sul colpo (come il pugile suonato) e non abbiamo più una parola di fiducia, non ci differenziamo da chi non crede. Ogni tanto dovremmo chiederci: se sono figlio, se sono figlia del Padre che ha dato il Suo Figlio per la salvezza del mondo, come mi distinguo dai discorsi comuni, dagli sguardi catastrofici su questo mondo, sulla storia? Anche noi siamo tra coloro che, non credendo a Dio, credono a tutto? Abbiamo una profezia da portare: quella della speranza. Quando essa viene meno non troviamo né vediamo strade, non ci accorgiamo delle opportunità, le risorse che abbiamo sotto mano (quei cinque pani e due pesci) sono niente rispetto alla fame di tanta gente.  La speranza è racchiusa in pochi pani e pesci che qualcuno ha il coraggio di mettere nelle mani di Gesù. Potremmo questa sera domandarci: che cosa sono dei piccoli passi da intraprendere quando la strada è così lunga? Quando mai servirà a qualcosa quello che facciamo?
  •   “(…) e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui”. Facciamo risuonare queste parole di Gesù per noi, come persone e come comunità. Abbiamo una missione, quanto mai necessaria oggi, che è previa a qualsiasi azione pastorale da mettere in atto. Facilmente identifichiamo la missione, l’essere missionari, con strategie per raggiungere degli obiettivi (senz’altro molto alti e importanti). In realtà la cosa straordinaria che ci è richiesta è di essere ed offrire un luogo dove incontrare il Dio-con-noi. Se venissimo meno a questa missione, perché amiamo più noi stessi e le nostre attività, le nostre strutture e le nostre missioni impossibili, verrebbe a mancare un luogo dove chiunque possa incontrare il Dio di Gesù Cristo. Questo è l’unicum che non possiamo correre il rischio di perdere per strada. Allora la conversione permanente è ancora più prioritaria della formazione permanente (pur necessaria). Ciò su cui dobbiamo verificarci allora è quanto ciascuno di noi e le nostre comunità sono capaci di far trasparire l’amore di Dio di una fraternità, di una comunione di un’unità di persone tanto diverse. Lasciando ciò che non ci è proprio.

Partirono senza indugio”: così la locanda di Emmaus diventa il Cenacolo di turno con una porta spalancata sul futuro. Le lettere che giungeranno alle Comunità pastorali non sono le istruzioni per l’uso, ma l’invito a non procrastinare il cammino perché il domani è affidato alla disponibilità di credere che il Signore continua instancabilmente a camminare con noi.