Ogni anno, puntualmente, Sant’Antonino convoca la città e la diocesi in un ‘luogo’ simbolico che esprime la volontà di incontro, di convergenza, di unità. E ciò avviene attorno ad un martire, a ricordare che una convivenza si poggia su vicende di testimonianza coraggiosa e appassionata. La logica evangelica del chicco di grano che per dare frutto deve accettare di essere gettato per morire raccoglie l’invito rivolto a tutti e in ogni epoca che una generazione per dare vita, appunto per generare futuro, non può semplicemente auto-preservarsi. Chi di noi non vorrebbe lasciare dopo di sé qualcosa di bello, di nuovo? Quale comunità -civile o religiosa- non ambisce a custodire non solo il presente ma allo stesso modo la possibilità di un domani? Allora dovremmo essere sinceri nel rispondere alla domanda: cosa siamo disposti a metterci di nostro? A sacrificare di ciò che abbiamo a nostra volta ricevuto? Il nuovo, il bene… hanno un prezzo, che ci è richiesto. A me prima che agli altri. Questa è la condizione per dare respiro ad ogni relazione.

In un certo senso oggi alla comunità cristiana è affidata (o ri-affidata) la responsabilità verso l’ambiente umano, civile, sociale nel quale vive: questa città e il territorio che vede in essa un riferimento essenziale.

Questa occasione ci dà l’opportunità di esprimere un augurio di buon lavoro alla nuova sindaca.

Le assicuriamo la preghiera per il suo incarico affascinante ed insieme impegnativo. E, come ho già avuto modo di esprimerle, le assicuro l’impegno mio personale e della comunità cristiana a collaborare al bene della nostra città, con un’attenzione particolare a chi in questo tempo ha più bisogno.

Questa tornata elettorale ha confermato una grave patologia partecipativa: la bassissima affluenza al voto consegna al Consiglio comunale nella sua interezza una priorità politica che interessa tutti, maggioranza e minoranza. Compito prioritario e urgente dell’azione politico-amministrativa è suturare questa ferita di fiducia. Non ci si può nascondere dietro al fatto (pur vero) che si tratta di un fenomeno diffuso (e neanche solo limitato all’Italia). Le cause sono molteplici e siamo consapevoli che le soluzioni per questa ragione non sono semplici. Ma sono convinto che si possa e si debba cercare di recuperare in senso partecipativo. In fondo è una crisi di appartenenza.

Lo stile di ascolto e di vicinanza alle persone che abbiamo visto durante la campagna elettorale non può essere abbandonato. Il Consiglio comunale con le sue articolazioni deve poter essere uno spazio vero di confronto sulle scelte da fare, dove le posizioni diverse sono ascoltate. Questo clima sarà favorito se si smette ogni logica di operare (sistematicamente e pregiudizialmente) contro, per cercare invece ciò che costruisce un bene possibile per tutti. Credo sia necessario ripensare il dibattito politico che deve superare forme esagerate di ostruzionismo, non di rado frutto di mancanza di confronto autentico. E in questa fase ci sono delle scelte (ad es. in ambito di sostenibilità ambientale) che possono trovare convergenza, a beneficio dei cittadini stessi.
Se la preoccupazione sarà di far sentire vicina la politica ai cittadini, decisiva diventa la comunicazione, indicando tempi plausibili per portare a termine i diversi progetti.
Lo sappiamo bene che si amministra grazie a un organismo articolato, composto da tecnici e dipendenti pubblici: tutti preziosi perché le decisioni politiche prendano forma.
L’appello a tutte le forze per operare in convergenza coinvolge a livelli diversi proprio tutti: ciascuno ha il potere di favorire il buon funzionamento dei servizi e quindi far crescere il senso di fiducia. Competenza, stima reciproca, responsabilità sono alla base di un’alleanza a favore del bene dei cittadini.
Ma in questo momento mi sento di fare un appello anche a noi cittadini. Anche da parte nostra si è fatto strada un virus anti-istituzionale, da cui dobbiamo guardarci. Vigiliamo sulle pretese crescenti, per le quali ogni nostra particolare richiesta diventa prioritaria e deve trovare risposta immediata. 

Si rischia che il proprio bene sia “il” bene; ci si illude che le risorse siano senza limiti; si pretende che le risposte vengano sempre dagli altri. Vigiliamo sulle generalizzazioni (“tutto è marcio… niente funziona”). Affermazioni che oltre ad alimentare lo scontento, minano la fiducia e creano ancor più isolamento.

Dovremmo impegnarci a custodire il valore delle istituzioni in noi e nelle nuove generazioni. Sono necessarie come l’aria che respiriamo!

Cari genitori, anche voi, come noi tutti adulti abbiamo bisogno di riconoscimento dei nostri ruoli (educativi-sociali). Sono solo apparenti consensi e di corto respiro quelli che possiamo incassare quando lanciamo discredito sull’adulto di turno che i nostri ragazzi incontrano nel loro cammino. Diventeremo tutti vittime del medesimo discredito: le figure istituzionali si salvano o si perdono insieme.
Come ci stiamo rendendo conto, c’è bisogno di dare vita ad un clima nuovo per tessere relazioni civili, sociali e intergenerazionali fondate sulla fiducia. E anche la comunità cristiana non è estranea a questo bisogno. Respiriamo lo stesso clima, che se è tossico lo è anche per noi Chiesa.
Mi hanno raccontato che c’è un “sano orgoglio” necessario per la vita, che per evitare possibili fraintendimenti potremmo chiamare stima di sé (e di chi ci sta accanto). Troppe volte ho sentito descrivere il “piacentino” con sfumature negative (“noi piacentini siamo fatti così…”, “siamo come i nostri palazzi”, “chiusi” e via dicendo). Non so se sia per mettere le mani avanti, ma questo modo di raccontarci rischia di diventare un modo per assecondare tali tratti. Quasi per giustificarli. In realtà in questi (quasi) due anni sto incontrando altri volti e tratti ‘piacentini’. Che mi piacerebbe soppiantassero (anche nella narrazione) quelli consueti. Il tempo dell’emergenza sanitaria, come pure l’emergenza ‘ucraina’ ha fatto emergere senso di apertura e generosità.
Crediamoci che questo tempo è tempo favorevole, nel quale possiamo far emergere il desiderio e la volontà di dare un volto a questa città.

Il riconoscimento che ogni anno viene fatto attraverso l’Antonino d’oro ci presenta volti familiari ma tutt’altro che sbiaditi. Dobbiamo dircelo con schiettezza quando siamo chiusi in un provincialismo sterile, oppure quando prevale il sospetto tipico dell’individualismo. Per poterci dire, alimentando la speranza, che possiamo e vogliamo essere altro.

Il prof. Pierpaolo Triani quest’anno è stato scelto -in un certo senso- per far l’elogio della ordinaria serietà professionale e del servizio ecclesiale. Ci è indicato un modo di intendere la propria vita (personale, familiare, professionale) intrecciata continuamente con quella del mondo che ci circonda. Non c’è alternativa, opposizione tra il prendersi cura di sé e delle proprie cose e prendersi cura del mondo di cui facciamo parte.

Un ambito di lavoro e di studio, il suo, che va proprio a richiamarci l’urgenza e la bellezza dell’arte dell’educazione. Un’arte che modella allo stesso tempo l’artista con la sua opera.

Affidiamo allora all’intercessione di Sant’Antonino la responsabilità che questo tempo ci consegna di operare ognuno per la sua parte per recuperare sempre di più la bellezza di essere dentro a relazioni che promuovono l’umano. Ogni dimensione dell’umano. Per noi in forza della nostra fede.