Venerdì ci siamo imbattuti nell’esperienza della ‘fine’. E ci siamo consegnati ad un’invocazione: “Vieni, Signore. Non tardare a manifestare la tua gloria”. La ‘fine’, qualunque essa sia, ci è insopportabile.

Perché nella vita l’arco temporale che intercorre tra il venerdì di morte e la domenica di risurrezione è tutt’altro che breve. Non sono ventiquattro ore. Non è assolutamente percepito così. Al contrario nella liturgia possiamo essere giocati dal “sapere come va a finire”. Il sabato diventa così un semplice passaggio. Non ci disturba affatto: è il giorno dei preparativi per la festa. Invece, come accennavo, il sabato della vita è attraversato da ben altri pensieri, dubbi, sofferenza. È il giorno del pesante silenzio di Dio, della sua sconfitta. Una preghiera che sembra non ascoltata mette veramente alla prova la nostra fede, la fiducia nel Signore, nella vita, ultimamente nel futuro. “Noi speravamo…” ripetiamo con i due di Emmaus.

Per questo motivo venerdì ci siamo invitati a custodirci nella preghiera: custodire la fede di chi è messo particolarmente alla prova. Custodire l’attesa di chi la morte ha ucciso anche possibili desideri. Custodire la speranza che la ‘fine’ possa diventare un vero inizio.

Il primo annuncio pasquale nei discepoli di Gesù è parso un vaneggiamento delle donne. Eppure ha spinto qualcuno a correre al sepolcro, perché non sembrava vero. Ma sarebbe stato bello! Perché è proprio questa l’esperienza che facciamo. Diamo credito a quello che succede (“purtroppo è vero!”), non altrettanto ci è spontaneo credere a ciò che, imprevisto, nasce o rinasce.

Speriamo che sia Pasqua, ma non è per nulla facile crederci. Non vorremmo illuderci un’altra volta. Allora in cuor nostro ci diciamo che è improbabile (se non impossibile). È proprio vero che siamo più cristiani della croce, che del Crocifisso Risorto.

A conferma potremmo fare molti esempi: ce lo siamo più volte richiamati guardando quello che sta capitando nelle nostre parrocchie e nel nostro presbiterio. Pronti a far i compianti funebri, i lamenti sterili e nostalgici, strenui difensori di tradizioni impossibili da sostenere, quanto dubbiosi o scettici a immaginare questa una stagione di vita, un tempo di novità per la vita ecclesiale. La medesima fatica la sperimentiamo nel giudizio verso le nuove generazioni. Ne cogliamo le deficienze (non sono… non sono più…), piuttosto che sforzarci di cogliere i germogli. Non è differente l’atteggiamento che riserviamo alle persone con cui abbiamo a che fare: li inchiodiamo sul loro passato, precludendo loro qualsiasi possibilità di cambiamento o di riscatto.

Credere e professare la vittoria di Gesù sulla morte e sul peccato, qualunque sia la morte o il peccato, ha conseguenze molto precise. È vero che ciò che rinasce non è immediato, che necessita di quel ‘benedetto’ sabato. Troppo spesso lungo da tramontare. Ma se non coltiviamo la speranza e l’attesa niente riusciremo ad intercettare, a riconoscere, a coltivare.

Correre verso il sepolcro vuoto non è la stessa cosa che aspettare impauriti, chiusi entro quattro mura. Dove cresce solo la nostalgia e la paura di quello e di quelli di fuori.

Per questo motivo la Pasqua chiede un ulteriore necessario passaggio: la Pentecoste. Perché senza la forza dello Spirito Santo, che il Risorto ci assicura, rimarremo la comunità del lutto e del rimpianto. Ma così affossiamo la forza della Pasqua. Smentiamo ciò per cui oggi ci siamo ritrovati e celebriamo.

Allora che sia Pasqua per ciascuno e ciascuna e per tutt’intera la comunità. Perché solo così c’è vita. Buona Pasqua.