Is 52,13 – 53,12

Eb 4,14-16; 5,7-9

Gv 18, 1– 19,42

 

 

Questa celebrazione è pervasa dal silenzio e dall’invito alla contemplazione. Contemplazione del crocifisso che (come dice il Canto del Servo di Jahvè) fa crescere lo stupore per quanta violenza si accanisce sul giusto. Una violenza che riesce a sfigurare il volto del Servo. E la parola muore in gola. Così ogni parola risulta fuori luogo in questo momento. Ricordo che di fronte alle scene cruente del film “The Passion”, tutto quel sangue (esagerato disse qualcuno) che usciva dal Cristo flagellato te lo sentivi addosso e saliva istintivo il grido: “basta!”.

Quando il male si accanisce, quando la violenza si dimostra ancora più insensata di quello che è, quando il dolore ci raggiunge e sembra non avere tregua, la domanda che si impone è quel: “che cosa ho fatto di male? Non me lo merito”. Pensare che la sofferenza sia un castigo di Dio è quasi naturale.

“Noi lo predicavamo castigato, percosso da Dio e umiliato”, così dice la profezia di Isaia.

Dio, nel suo figlio Gesù, ci rivela invece che Dio non sta dalla parte del giudice che infligge castighi, con la sofferenza, con il dolore, che colpisce con piaghe l’uomo, perché magari colpevole, Dio con Gesù si è messo piuttosto nelle nostre condizioni per dirci da che parte sta. Dove lo possiamo trovare: in Gesù è dentro ad ogni passione umana. È fratello nel dolore, è compagno di pena, è vittima ingiusta, per svelare che Dio ti raggiunge ovunque, anzi lui è lì perché ha già attraversato ogni assurdo cammino di sofferenza e di morte.

“Non abbiamo un sommo sacerdote che non sappia prendere parte alle nostre debolezze: egli stesso è stato messo alla prova in ogni cosa come noi, escluso il peccato”, ci ha detto la lettera agli Ebrei.

Così in ogni tribolazione, in ogni dolore, nella prova estrema che è la morte, possiamo trovare colui che prende parte alla nostra condizione di debolezza e di fragilità. Solo così può renderci forti. Solo così ci permette, facendo nostre le sue (poche) parole, di aprirci al Padre, di incontrarlo, proprio nel dolore, nella sofferenza, come lo ha incontrato lui. Per aiutarci a stare alla presenza di Dio anche nella nostra debolezza e trovare la forza per non soccombere. Così sarà possibile anche per noi imparare l’obbedienza della fede da ciò che ci è dato di patire.