Un Patrono laico per una città e per una diocesi (anche se con altri santi in questo caso) è una bella provocazione. Tanto più se il santo è anche martire. È provocazione perché afferma che la santità è cosa di tutti. Che fede-speranza e carità hanno a che fare con la vita ‘profana’. Che la santità è popolare, nel senso che si esprime nelle condizioni più comuni. E il martire ricorda che quella del cristiano è testimonianza coraggiosa e fedele. Perciò la celebrazione odierna è per la vita di tutti e di ciascuno. Consegna una responsabilità alla città. E la cosa è confermata dalla presenza della sindaco e delle autorità civili, che cordialmente saluto e ringrazio.

 

Come sempre è la Parola di Dio ad illuminare la nostra celebrazione. Con queste pagine che per un verso intendono presentare il Santo che festeggiamo, per un altro ci aiutano a stare nel tempo che ci è dato e nel quale risuona per noi l’appello alla testimonianza credente.

Rispetto a che cosa ci è affidata questa testimonianza? S. Paolo con quattro pennellate descrive la situazione dei cristiani di Corinto: “siamo tribolati (da ogni parte)… siamo sconvoltiperseguitati…. colpiti…”. Questa è la condizione della comunità a cui si rivolge, che non viene negata né edulcorata. Ma ciò che fa la differenza è la reazione: “… (siamo tribolati) ma non schiacciati … (siamo sconvolti) ma non disperati…. (siamo perseguitati) ma non abbandonati… (siamo colpiti) ma non uccisi”. L’Apostolo sottolinea il modo di stare, da credenti, in questa cruda realtà. La forza per non soccombere, per riuscire a superare la prova è la vita di Gesù. Egli comunica ai discepoli la vita da risorto, da Colui che ha attraversato la passione e morte. È Lui che non è stato vinto dalla morte e dai suoi segni. Qui c’è l’indicazione da cogliere per capire cosa significhi essere testimoni.

 

Non possiamo negarci che questo tempo è stato (e in parte lo è ancora) una tribolazione, uno sconvolgimento. Siamo stati colpiti da lutti, dalla precarietà, colpiti in ciò su cui contavamo. Stiamo facendo esperienza anche noi che la nostra vita e ciò che abbiamo di prezioso, come la fede, (Paolo lo chiama: “un tesoro”) è racchiuso in vasi di creta. Abbiamo toccato con mano la nostra fragilità, insieme alla vulnerabilità. Mentre la fragilità dice una condizione umana intrinseca, non necessariamente sinonimo di debolezza, la vulnerabilità è la percezione che dall’esterno qualcosa può minacciarci e quindi fa scattare la paura. La fragilità invoca, è apertura e quindi può essere migliorativa. La vulnerabilità è per lo più difesa, è chiusura. Forse è la prima volta (almeno da molto tempo) che tali sentimenti sono stati sperimentati diffusamente. Vivevamo infatti chiusi in una bolla di invincibilità, di (onni)potenza.

Eppure dobbiamo vigilare perché ricorrono tra noi discorsi quanto meno pericolosi: “ritornare alla vita normale”, “ripartire” (come dopo una sosta forzata). Rischiamo di coltivare dentro di noi l’idea di risvegliarci finalmente da un brutto sogno. È pericoloso questo pensiero nella misura in cui il passato recente (ma è proprio passato?) sembra una brutta parentesi, piuttosto che una pagina che non si può né si deve strappare dal nostro libro della vita. Non ci ha insegnato proprio niente? È proprio auspicabile ritornare a quello che vivevamo?

L’immagine del chicco di grano, usata da Gesù nel Vangelo, ci aiuta piuttosto a capire che ciò che ci aspetta è qualcosa di nuovo. Frutto proprio di questa sensazione di morte che ci ha avvolti. Abbiamo sperimentato realmente la fine di abitudini, comportamenti… Il chicco gettato nella terra muore, c’è realmente la fine di ciò che il chicco era fino a quel momento. Ma in ciò che finisce c’è qualcosa che nasce. Perciò possiamo dire che nell’esperienza patita ci sono germogli preziosi di vita che vanno coltivati e non strappati come fossero zizzania. La condizione è che non dimentichiamo velocemente tutto per ritornare alla situazione “pre-“. Se di “ri-“ si tratta, sarebbe meglio immaginare una ri-nascita.

 

Nell’emergenza è stata sconfitta, perché è apparsa del tutto illusoria, l’idea che non abbiamo bisogno degli altri. Si sono strette le maglie tra noi e per un po’ di tempo l’indifferenza è scricchiolata. Non ci siamo sentiti custodi e custoditi e meno sospettosi? Anche i distanziamenti sono diventati segno della cura reciproca. Della responsabilità verso l’altro.

La condizione (sociale, professionale, economica, di salute) che ci sembrava scontata, credevamo acquisita per sempre per molte persone e categorie, è stata messa in discussione e sconvolta. La precarietà ci ha accomunati: chi poteva essere certo del domani? Certo abbiamo perso in prospettiva, ma abbiamo guadagnato in profondità e gratitudine.

Abbiamo ritrovato (o per molti scoperto) la bellezza delle relazioni corte e dei momenti di famiglia: proiettati sempre all’esterno siamo stati costretti a scoprirci prossimo. Con le gioie e le fatiche che questo ha comportato. E le fatiche erano spesso dovute alla mancanza di esercizio: le relazioni chiedono allenamento. Una recente indagine fatta sui bambini dai 5-12 anni ha raccolto tra l’altro la gioia dei bambini nell’aver assaporato la bellezza di stare assieme al papà (costretto spesso a lavorare da casa).

Abbiamo fatto i conti che l’emergenza sanitaria è un tutt’uno con quella sociale, economica, familiare… C’è un’interconnessione con i vari ambiti della vita. E questo è vero non solo in fase pandemica, va tenuta in seria considerazione anche se vogliamo guardare avanti.

A causa di questa emergenza si sono creati nuovi poveri, nuove fasce deboli, che non conoscevano questa condizione e che perciò stanno vivendo in modo doppiamente drammatico una condizione da accettare e da vivere. Per questo ci vuole un supplemento di attenzione: per intercettare queste povertà vissute non di rado con vergogna e per accostarsi con discrezione. Così si è imposta una verità sacrosanta forse trascurata: sempre e a tutti i poveri va assicurata la dignità. L’aiuto deve essere sempre rispettoso e promuovente.

 

Volevo solo accennare il fatto che questo tempo non è stato unicamente attraversato dalla fine di qualcosa, perché ha fatto germogliare vita e carità. L’emergenza ha fatto emergere un sottofondo di generosità, di energie solidali, molte volte nascoste e sotto traccia. Mi piace sognare che il progetto “Insieme Piacenza” possa diventare un progetto permanente. Possa cioè uscire dall’emergenza pandemica per diventare, una volta superata questa condizione (non sarà certamente a breve), una struttura solidale che impegni i soggetti coinvolti in forme diverse. Sicuramente dovrà evolvere e l’aspetto finanziario potrà essere più ridotto, ma noi tutti siamo convinti (spero) che la precarietà rimane, che la fragilità è costitutiva delle persone e della convivenza. Nel ripresentarsi di qualche emergenza i settori e i soggetti della società potranno variare, ma la cultura della prossimità sarà una forza per crescere in resilienza.

 

A questo proposito possiamo integrare in questa prospettiva anche l’Antonino d’oro di quest’anno, sr Albina Dal Passo. Le motivazioni dell’assegnazione del Premio fanno riferimento a tre aspetti che possono diventare sentieri su cui continuare a camminare: un’umanità capace di tessere relazioni; la passione educativa, che richiama il primato della trasmissione del senso della vita e delle cose; la fiducia nella Provvidenza: nella cultura del dono la Provvidenza non è una possibilità, è una risorsa certa. Su questi tre pilastri il progetto “Insieme Piacenza” potrà diventare strutturale. Se la priorità sarà data alla educazione così connotata.

 

Siamo stati tribolati, ma non schiacciati. Sconvolti nelle nostre sicurezze ma ci ha sostenuto la speranza. Per noi la speranza è fondata sulla certezza che il tempo e le sue vicende sono nelle mani del Signore della storia. C’è un inizio anche nel momento tragico della morte.

Noi continuiamo ad avere un compito profetico, che prolunga le parole del profeta Isaia: “Non ricordate più le cose passate, non pensate più alle cose antiche! Ecco, io faccio una cosa nuova: proprio ora germoglia, non ve ne accorgete?” (Is 43,18-19). A noi la responsabilità di indicare i cammini nuovi che si stanno aprendo. A noi è affidato il coraggio di non abbandonare i sentieri aperti da questa condizione di emergenza. Non siamo preparati alle sfide che si presenteranno, ma forse un po’ più attrezzati nell’affrontarle insieme.

Che il nostro Santo patrono Antonino ci sostenga nel coltivare i germogli di bene e di vita che l’Amore Provvidente del Signore ha fatto sbocciare tra noi.