Mal 2,4-7

2Cor 4,1-2.5-7

Gv 10,11-16

 

È una bella coincidenza che il mio ingresso a Bobbio avvenga nella festa, che tradizionalmente qui si celebra in questa domenica, di un santo mio predecessore, Sant’Antonio Gianelli. Santità riconosciuta nel suo ministero di parroco e di vescovo. L’esemplarità di vita si è manifestata nella relazione viva con il Signore che ha orientato scelte coerenti e coraggiose: vita personale sobria, beni usati per sostenere i più indigenti, primato al farsi prossimo alle comunità a lui affidate. Si comprendono dentro a questo stile evangelico e di cura pastorale (non a caso la liturgia propone la figura di Gesù, Pastore buono-bello e le qualità del sacerdote tratte dal profeta Malachia) le scelte che caratterizzarono il suo ministero: riforma della vita sacerdotale, visite pastorali e missioni al popolo. E ritengo che corrisponda alla sua passione pastorale la fondazione delle Figlie di Nostra Signora dell’Orto (per la cura degli ammalati e l’educazione delle bambine povere). Così, intercettando le necessità del suo tempo, cercò risposte che potessero continuare dopo di lui e della sua opera.

Questo Santo vescovo mi e ci è di sprone perché il ministero, ogni ministero (quindi tanto più quello del Vescovo) sia la via nella quale il Signore ci pone per rispondere alla chiamata alla santità. Che altro non è che vivere la carità (pastorale, sponsale, laicale…). E in secondo luogo il Santo Gianelli mi richiama che il Vescovo riconosce e suscita carismi per essere fedeli come Chiesa al mandato missionario di Gesù. Ho capito che anche questo territorio è segnato dal fenomeno dello spopolamento, con il conseguente rischio, per chi ci abita, di non vedere futuro. Non ci è permesso di lasciarci sopraffare da un atteggiamento e da pensieri rinunciatari. Qui, più che altrove, il progetto delle Comunità pastorali può aprire spiragli per favorire la comunione, l’apertura, la condivisione delle risorse presenti. Allora credo che mi/ci è affidato il compito di riconoscere ed insieme di suscitare i doni necessari per dare vivacità a queste comunità, perché in esse si continui ad alimentare e vivere la vita cristiana. Anche noi dobbiamo offrire il nostro contributo perché chi desidera possa rimanere in questa terra, tra questi monti. Ad altri la responsabilità di politiche e azioni a sostegno dei territori montani, a noi la responsabilità di dare un’anima comunitaria a questi piccoli borghi.

Domenica scorsa – in ascolto della pagina evangelica- ricordavo l’importanza di raccogliere gli appelli alla conversione. S. Paolo, nella pagina ascoltata della seconda ai Corinti, ribadisce qual è per noi l’aspirazione più alta: “Siamo i vostri servitori a causa del Vangelo”. Se lo è l’Apostolo, non da meno è chiamato ad esserlo ogni battezzato. A causa di Gesù, in forza dell’amore che ci ha riservato, ciascuno si considera servo. Non ci è facile pensarci in questo modo. Nel clima culturale in cui siamo immersi, siamo spinti infatti ad anteporre i nostri bisogni, le nostre legittime esigenze, a rivendicare i nostri diritti. Prova ne sia la frase che esce anche dalle nostre labbra: “non voglio farti da servo!”. Ma siccome “noi non annunciamo noi stessi, ma Cristo Gesù, Signore” (così ancora S. Paolo), noi annunciamo che Lui, il Buon Pastore, “dà la propria vita per le pecore”. Annunciamo che alla vista del lupo non fugge e non abbandona le pecore. Ogni epoca ha i suoi ‘lupi’ che minacciano, disgregano e disperdono il gregge. In ogni tempo si fa strada la fuga per salvarsi, immaginando che ci si possa salvare da soli. La vita di Gesù la presentiamo in tutta la sua forza e verità assumendo anche noi con Lui la condizione del servo. Mettendoci a servizio.

Noi siamo portatori e custodi di questo tesoro, così lo chiama l’Apostolo: la luce cioè che è Gesù con la sua esistenza di amore, con il suo volto di Pastore a cui interessano le pecore. Tutte, anche quelle che non sono di questo ovile. Eppure questo tesoro è in “vasi di creta”. Siamo vasi fragili. Ne siamo ben consapevoli. Ma la fragilità (che spontaneamente non ci viene da mostrare perché “il mondo è dei forti-furbi”) non è una ‘debolezza’, se usciamo dalla logica della forza. Fare i conti con la debolezza non ci deve far paura, perché conosciamo che “la potenza appartiene a Dio”. In questo momento penso a noi preti, come pure a quanti sono impegnati in modi diversi dell’azione pastorale: questo è tempo di purificazione (diciamo pure, provvidenziale) perché ci obbliga a non fare conto su di noi, ma piuttosto a spostare il centro e quindi la fiducia nel Signore.

Questo splendido luogo non è un museo, non vogliamo diventi il luogo dei ricordi (per quanto preziosi) della nostra storia passata. Dobbiamo recuperarla come memoria che continua a provocare il nostro oggi di Chiesa. S. Colombano e i suoi compagni non hanno vissuto un tempo più favorevole di quello che stiamo vivendo noi. Né avevano mezzi più potenti. Il loro cammino, l’itinerante pellegrinare attraverso l’Europa, era sostenuto da un “grande tesoro” che li ha spinti ad avventurarsi per luoghi inesplorati. Forse è qui il segreto del loro messaggio: la consapevolezza di aver ricevuto un tesoro. Si va, si parte per nuove sfide se c’è qualcosa di bello da condividere, una buona notizia incontrata… Che non sia il caso di domandarci se abbiamo ancora qualcosa da raccontare, qualcosa di bello da condividere? Qualcosa di affascinante da testimoniare? Perché altrimenti meravigliarci se siamo sempre più insignificanti?

Non si tratta di fare gli eroi, bensì di cercare cammini di incontro, di tessere legami di fraternità (il tema della giornata missionaria mondiale). C’è tanta domanda di relazioni buone, fraterne. Questo è stato un luogo di cultura e di audacia evangelica. Vorrà pur dire qualcosa alla nostra diocesi piacentina-bobbiese?! La cultura dei legami buoni, necessari ci appartiene e, come abbiamo visto nell’emergenza sanitaria, c’è tanta disponibilità, in tante persone, a tessere queste relazioni nel dono generoso di sé. Questa diventa un’urgenza, una priorità evangelica.

Il Signore intercetta la domanda del popolo d’Israele, che stava vivendo un momento difficile, e al profeta Isaia chiede: “Chi manderò e chi andrà per noi?”. Risuona anche oggi la stessa domanda anelante del Signore della vita. Prendiamo sul serio la risposta del profeta: “Eccomi, manda me”.

Allora, in questo luogo carico di storia fedele desidero fare mia la disponibilità anche a nome della Chiesa di Piacenza-Bobbio: “Eccomi, manda me”.