Dal Vangelo secondo Marco (1,21-28)

Giunsero a Cafàrnao e subito Gesù, entrato di sabato nella sinagoga, insegnava. 22Ed erano stupiti del suo insegnamento: egli infatti insegnava loro come uno che ha autorità, e non come gli scribi. 23Ed ecco, nella loro sinagoga vi era un uomo posseduto da uno spirito impuro e cominciò a gridare, 24dicendo: “Che vuoi da noi, Gesù Nazareno? Sei venuto a rovinarci? Io so chi tu sei: il santo di Dio!”. 25E Gesù gli ordinò severamente: “Taci! Esci da lui!”. 26E lo spirito impuro, straziandolo e gridando forte, uscì da lui. 27Tutti furono presi da timore, tanto che si chiedevano a vicenda: “Che è mai questo? Un insegnamento nuovo, dato con autorità. Comanda persino agli spiriti impuri e gli obbediscono!”. 28La sua fama si diffuse subito dovunque, in tutta la regione della Galilea.

 

Stiamo vivendo un momento di famiglia. Così lo sto pensando: uno spazio dove possiamo dirci le cose, perché qui custodiamo e coltiviamo la fraternità sacerdotale.

Lo sappiamo bene che non è l’unica occasione. La celebrazione della messa crismale ha un valore sacramentale e simbolico unico. Nella celebrazione di ordinazione, come pure nelle messe di esequie dei nostri fratelli presbiteri e diaconi si esprimono e si rinsaldano i legami di fede e di carità. Così come in ogni celebrazione eucaristica cresce la comunione tra noi e con il popolo di Dio, diffuso “da oriente ad occidente”.

Accanto ai momenti celebrativi ci sono le molteplici occasioni di incontro: di fraterna gratuità, di preghiera e di ascolto condiviso della Parola di Dio, di ritiro. Non posso dimenticare tanti altri appuntamenti nei quali si intreccia la nostra vita sacerdotale e di amicizia.

Allora quello che stiamo vivendo oggi raccoglie e rilancia tutto quello che ho ricordato e lo tiene unito. Qui possiamo condividere preoccupazioni insieme ad attese e motivi di speranza. Oggi esprimiamo un legame fraterno che chiede di essere di continuo verificato e alimentato.

Confesso che sono molti i pensieri che desidererei condividervi. Alcune cose ho avuto modo di esprimerle nel ritiro di inizio quaresima e nella messa crismale. Dovendo fare delle scelte, voglio rendervi parteci di alcune considerazioni su una promessa che abbiamo fatto il giorno della nostra ordinazione. La promessa di obbedienza.

Desidero radicarle nella pagina del Vangelo secondo Marco che abbiamo ascoltato e che ha il suo parallelo in Lc 4,31-37. Sorprende che Gesù incontri in sinagoga questo uomo posseduto da uno spirito impuro. Come a dirci che è possibile trovare uno spirito impuro anche tra chi pratica. Di che si tratta? Sappiamo che l’impurità rituale impedisce di accostarsi al culto, così da richiedere un rito di purificazione per potervi partecipare. Rispetto ad essa, in termini positivi, la pagina delle beatitudini ricorda che i “puri di cuore… vedranno Dio”. Solo chi è puro di cuore vede e riconosce il passaggio di Dio. Perciò se e quando questo non avviene, ci viene rivelata la presenza di uno spirito maligno, che può possedere anche l’uomo religioso (che frequenta regolarmente la sinagoga). Potrebbe sembrare un paradosso: si può smarrire per strada la presenza del Signore e la docilità alla sua parola nonostante siano presenti comportamenti e ‘pratiche’ religiose. Allora raccogliamo la reazione dello spirito impuro, perché può istruirci su nostri possibili atteggiamenti, più pericolosi di quanto ci è spontaneo giudicare.

Il commento stupito della folla mostra come la forza della parola, dell’insegnamento e del comando di Gesù sia un appello all’obbedienza (“Tutti furono presi da timore, tanto che si chiedevano a vicenda: «Che è mai questo? Un insegnamento nuovo, dato con autorità. Comanda persino agli spiriti impuri e gli obbediscono!»”). Qui l’obbedienza sgombra la strada al passaggio di Gesù e della sua Parola. Obbedire alla Sua Parola è la modalità grazie alla quale Gesù opera una liberazione. Consegna l’uomo alla sua libertà interiore. E il Vangelo ci rivela che l’intervento di Gesù non è privo di sofferenza: infatti la liberazione dell’uomo posseduto avviene attraverso una vera e propria lotta… (“straziandolo e gridando forte”). Il combattimento spirituale appartiene alla relazione autentica con il Signore.

Ci soffermiamo sulle parole di questo uomo posseduto: “Che vuoi da noi, Gesù Nazareno? Sei venuto a rovinarci?”. La resistenza a lasciarsi visitare e incontrare da Gesù è originata dal bisogno di non essere inquietati; dal rifiuto, anche solo dell’idea, di abbandonare abitudini, sicurezze, forse comodità attorno alle quali si è costruito il nostro habitat pastorale, psicologico, affettivo. Va detto che non necessariamente si tratta di una situazione di trascuratezza, o di disimpegno, perché può continuare una dedizione pastorale, la cura della vita spirituale, ma certamente dentro ad un orizzonte rassicurante che permette di mantenere il proprio ‘equilibrio’. Se vogliamo, di frequente la condizione che ci creiamo è funzionale a mantenere una tranquillità che faccia star bene. Siamo anche noi immersi nella cultura della ricerca del benessere: importante non essere inquietati.

L’ingiunzione di Gesù: “Taci! Esci da lui!” è evidentemente rivolta allo spirito impuro, ma potrebbe in egual modo essere rivolta all’uomo posseduto: Ascolta! Smettila di coprire di parole la condizione nella quale ti sei rinchiuso. Ascolta gli appelli che ti giungono. Ascolta la mia Parola. Ed esci da questo spirito e dalla sua logica mortificante, sterile. Dobbiamo riconoscere che il rimanere chiusi e refrattari ad ogni appello/chiamata che ci viene rivolta ha una buona copertura di ragionamenti: siamo abili nel costruirci un apparato difensivo che ci mette al riparo da qualsiasi novità scomodante. Dovremmo fare un esame di coscienza al termine delle nostre giornate per verificare il tono dei nostri discorsi, su cosa abbiamo giustificato le scelte o le non-scelte di quella giornata. Per consolidare le abitudini o per aprire percorsi nuovi? Ascolta! Anche te stesso per raccogliere in profondità lo Spirito di Dio che hai ricevuto nell’ordinazione.

Il nostro ministero è radicato in un’originaria obbedienza: l’obbedienza alla chiamata del Signore. In quanto originaria, l’obbedienza permane nel tempo e ad essa non si può venir meno. Pena il perdere la nostra identità, ciò che noi siamo. Eppure nel corso della vita incorriamo nel rischio di dissociare, di separare l’obbedienza dalla nostra vita di presbiteri. Per cui non ’ascoltiamo’ più (cfr. ob-audire) e non diventiamo più docili a seguire una Parola e un comando che ci ‘espropriano’ dalla logica del possesso della nostra esistenza. Quando ci riappropriamo del percorso da fare (pretendiamo così di decidere da noi stessi), ciò che può essere compromessa è l’offerta di noi stessi, che sta alla base della nostra vocazione. Ci re-impossessiamo di ciò che avevamo lasciato, come modo per donare la nostra vita. Non solo, l’esperienza che abbiamo fatto è che quando abbiamo accettato il rischio di essere condotti lì dove non avremmo programmato, il Signore non ha fatto mancare qualcosa di imprevedibile, di impensabile. Fidarsi e affidarsi a Colui che è all’origine della nostra vocazione è condizione per sperimentare il centuplo promesso.

Mi piacerebbe ora guardare insieme con voi all’obbedienza come una possibilità, una opportunità che ci è offerta e che può aiutarci ad affrontare questo tempo troppo frequentemente guardato e giudicato per le fatiche, per gli aspetti di incertezza, per gli stati d’animo intristiti (pur presenti in noi e in tante persone che incontriamo). Ma noi siamo chiamati alla speranza. Per questo motivo dobbiamo aiutarci a dare nome ai sentieri che il Signore sta aprendo in questo nostro tempo.

Una prima fedeltà da custodire è alla storia. Fedeltà -e perciò obbedienza- al tempo che stiamo vivendo (cfr. Gesù incontra questo uomo nella condizione in cui si trova). Non mi stanco di ripetere che nella condizione in cui ci troviamo il Signore non fa mancare la sua presenza e la sua Grazia. Nel kronos c’è sempre un kairòs. La cronaca è anche tempo favorevole. Non nonostante questo tempo, ma piuttosto in questo preciso momento storico. La condizione è di non fuggire in una condizione che non c’è più, in forme che non interpretano più il vissuto delle persone. È la fedeltà obbediente e patita al travaglio di questo tempo, che le persone, le famiglie, i giovani vivono sulla loro pelle. È decisivo imparare a stare in questo tempo da pellegrini, che affiancano le persone nel loro cammino. Lasciarci attraversare dalle fatiche e dalle domande di tutti con la consapevolezza che ci è stata data una grazia, in forza della quale il Signore può operare anche attraverso di noi, attraverso la nostra compassione. Possiamo continuare ad essere volto, cuore e mani di Dio che non si gira da un’altra parte. È pericoloso cavalcare l’illusione che il tempo passato fosse migliore di quello che stiamo vivendo, che fosse più favorevole al Vangelo. In ogni caso il Vangelo, per poter dire qualcosa, deve risuonare in questo nostro oggi. E quindi per poter essere accolto e per poter salvare. La prima qualità del pastore è di mantenere lo sguardo benevolo e appassionato sulla propria stagione, sul proprio tempo, sul popolo di Dio a cui siamo affiancati. Dovremmo far sentire prima di tutto il nostro calore fraterno e paterno.

C’è una seconda obbedienza attraverso la quale passa l’obbedienza al Signore della storia: è l’obbedienza al cammino della Chiesa. A partire dal cammino della nostra Chiesa di Piacenza-Bobbio. Penso in particolare al progetto delle Comunità pastorali. C’è bisogno di obbedienza perché possa trovare compimento quanto è stato individuato come percorso ecclesiale. L’obbedienza deve essere sempre cre-attiva. Ci sta che non tutto rientri nelle convinzioni di ciascuno, che non tutto corrisponda all’immagine di chiesa e di ministero che abbiamo dentro. Ma la forza sta nel partecipare ad un cammino nel quale non deve mancare l’impegno e l’apporto di tutti, di modo che la strada sia frutto del discernimento comunitario. Accettare la sfida di un cammino richiede la disponibilità a morire a sé stessi: non ci può essere nessun vincitore come nessuno sconfitto. Sono convinto che il passaggio che dovremmo fare come presbiterio è di cominciare a pensarci non a partire dalla “mia” o dalle “mie” parrocchie, ma piuttosto dalla comunità cristiana articolata in varie parrocchie e con la presenza di vari attori ecclesiali che imparano ad ascoltarsi e a valorizzarsi. Se cammineremo insieme (appunto con le diverse realtà ecclesiali!) ci convertiremo tutti a nuove relazioni, ad un’esperienza di Chiesa popolo di Dio; all’umiltà dello sguardo sulla realtà (comunque molto complessa); alla capacità di integrare l’apporto degli altri soggetti. E questo atteggiamento sarà la forma più eloquente di una comunione frutto dello Spirito Santo.

Siamo consapevoli, presumo, che siamo entrati in una fase di rigenerazione della Chiesa e del nostro essere comunità evangelizzante. Credo che tutti siamo convinti che la domanda di novità mal si sposa con la tendenza a ripetere le cose che abbiamo sempre fatto. E allo stesso modo. Ci è affidato un compito singolare, che deve essere motivo di gioia, dal momento che siamo stati collocati in un tornante della storia della Chiesa che chiede docilità allo Spirito Santo, a ciò che il Signore farà sbocciare tra le pieghe della nostra vita personale, presbiterale ed ecclesiale.

L’obbedienza al cammino ecclesiale va di pari passo all’appartenenza al presbiterio diocesano. Si fa sempre più urgente crescere nella comunione tra presbiteri e diaconi. Nell’omelia della Messa crismale mi sono già soffermato su questo aspetto: continuiamo a far risuonare la domanda provocante che il Signore Dio rivolge a Caino: “Dov’è tuo fratello?”. Dove si trova? In quale situazione personale e pastorale? Dove mi trovo io rispetto agli altri confratelli? Lasciatemi dire: dobbiamo sentire come un dovere grave la partecipazione ai momenti di fraternità, di formazione, di preghiera che vengono proposti ai vari livelli. Perché su queste fedeltà i grandi orizzonti crescono o naufragano. Ci possono essere motivi personali e/o impedimenti oggettivi al nostro ritrovarci. Ma quando l’assenza è sistematica, allora dobbiamo tutti interrogarci perché la cosa interessa tutti. Non ci può essere indifferente la lontananza di un fratello.

C’è infine l’obbedienza al Vescovo e al suo ministero di presidenza della comunità cristiana. Su questa, devo dire di aver incontrato comportamenti corretti spiritualmente, insieme a modi di intenderla o come la sola forma di obbedienza richiesta (che porta a non considerare gli altri livelli fino a qui ricordati), oppure di considerarla alla stregua di una preoccupazione organizzativa che compete al Vescovo e rispetto alla quale ci si possa sottrarre (magari sentendosi in diritto di suggerire qualche alternativa). Con franchezza posso dire che in questi mesi non mi è sempre stato facile provvedere alle necessità della diocesi. Ho la profonda convinzione che chiedere un’obbedienza (che chiama in causa la volontà di Dio) non sia qualcosa da fare con leggerezza. Per questo, ho rispetto di fronte a risposte negative motivate. Ma la serietà della richiesta di un’obbedienza riguarda sia la vicenda personale di un sacerdote come pure la vita delle comunità o del servizio ecclesiale richiesto. Per questa ragione prima di arrivare ad una proposta di avvicendamento valuto, mi confronto e prego in vista di un bene da assicurare a tutti (nei limiti del possibile), per non ridursi ad una mera quadratura di un’organizzazione complessa. Perciò una persona non vale un’altra. Vista la situazione numerica e anagrafica del nostro clero e della necessità di riorganizzare la sua presenza nel territorio della diocesi, nei prossimi tempi gli avvicendamenti si imporranno in modo sempre più veloce. Allora mi sembra opportuno fermarci a riflettere su questo tema.

È importante ricordarci previamente che l’obbedienza appartiene alla cura della Chiesa locale e quindi del servizio al Vangelo. La responsabilità assunta dal Vescovo di provvedere alle necessità della Chiesa a lui affidata è condivisa con il presbiterio. Il legame sacramentale rinvia tutti al riferimento unico che è Gesù, Buon Pastore. Se per un verso a ciascuno è consegnata la cura di una porzione del popolo di Dio, il legame sacramentale fa sì che ognuno sia parte di un tutto. Pur nella relativa autonomia che ciascun ministro mantiene nel suo compito, c’è una circolarità e una unità che si vive con tutto il presbiterio. Ciascuno deve sempre ricordare di essere parte di un tutto e che quello opera non può che essere in sintonia con il servizio degli altri. L’operare di ciascuno inevitabilmente costruisce comunione o al contrario provoca divisioni. E, non di rado, diventa in tal modo motivo di scandalo per i fedeli.

Il principio che papa Francesco ha presentato in EG (234-237), che “il tutto è superiore alla parte” richiama anche noi a pensarci in questo modo. Si capisce che il Papa ritiene tale principio molto importante se lo riprende più volte in FT, dove, ad es., nella figura del buon samaritano trova espressione il legame tra l’occuparsi con tutto sé stesso di una singola vicenda e il costruire al contempo un «noi». Ogni dedizione può favorire un circolo virtuoso che genera reti solidali. Per questo ogni apprezzamento per il lavoro pastorale di qualcuno mi fa gioire, allo stesso modo che ogni motivo di critica per una trascuratezza pastorale, mi riguarda, mi fa soffrire e non può, in alcun modo, essere motivo di neppur velata compiacenza. Perciò dentro a questo orizzonte di cura, nessuno può essere criterio a sé stesso e al proprio ministero pastorale, anche se ad ognuno è chiesto un apporto personale al servizio della missione della Chiesa, al servizio del Vangelo.

L’obbedienza che appartiene all’ordine della fede e del discepolato (anch’essa ci aiuta a rimanere sempre discepoli) ha il suo orizzonte nella missione della Chiesa, ricevuta dal Risorto. Chiediamo per questa nostra Chiesa e per il nostro presbiterio che il Signore ci aiuti a rimanere fedeli alla chiamata che ci ha rivolto, perché nel (continuare a) lasciare tutto possiamo trovare con i nostri fratelli e sorelle la promessa che Gesù ci ha assicurato.