Is. 40, 1-5.9-11

 

Siamo all inizio della seconda parte del libro del profeta Isaia, che porta il titolo di “Libro della Consolazione”. Di consolazione ce n è sempre stato bisogno. 

È aperto dal comando accorato del Signore – Dio: “Consolate, consolate il mio popolo”! 

A chi sono rivolte queste parole così appassionate? A quel “resto” che, a differenza della maggioranza, continua a sperare. 

A chi continua a credere è affidato il compito di rinnovare la speranza: di avere una parola di speranza anche per chi non ha più forza per sperare.

Siamo ancora in esilio (forse verso la fine) e il popolo è stremato: senza fiato, col respiro corto. 

La desolazione per il tempo prolungato di esilio fa di questa gente un popolo sconsolato. E in questa condizione niente più riesce a penetrare il buio per vincere la sordità.

“Consolate e parlate al cuore”, sono in pratica sinonimi e potrebbero essere tradotti così: “Permettete all altro di respirare profondamente”. 

Questa formula la ritroviamo in due pagine dell Antico Testamento: alla fine della Genesi (50,21) quando Giuseppe parla ai suoi fratelli dopo la sepoltura del padre Giacobbe. 

Sono angosciati per quello che potrà capitare loro adesso. Dopo le parole rassicuranti di Giuseppe troviamo scritto: “Così li consolò parlando al loro cuore”. 

E nel libro di Rut, dopo le parole di stima di Booz, Rut dice: “Tu mi hai consolato e poi parlato al cuore della tua serva (2,13)”. 

Ecco cosa c è in quel verbo. Noi purtroppo abbiamo ridotto il consolare ad una pacca sulla spalla. E invece offrire ancora vita, protezione, salute. 

Per consolare la parola ha un posto decisivo. Una parola che raggiunge il cuore perché lì c è la sede della decisione, della volontà. Una parola che rassicura e insieme mette in moto la volontà di decidere.

Di tornare a vivere. Bisogna decidere di vivere. 

A questo riguardo conosciamo la pagina dei due di Emmaus: ci può aiutare a comprendere il “parlare al cuore”. I due discepoli, dopo che Gesù spari dalla loro vista, si raccontano l un l altro: “Non ardeva forse in noi il nostro cuore mentre egli conversava con noi lungo la via, quando ci spiegava le scritture?” (Lc 24, 31-33). E subito “partirono senza indugio e fecero ritorno a Gerusalemme”, da dove si stavano allontanando, da dove stavano fuggendo, “col volto triste”. E ritornano pieni di gioia. 

Parlare al cuore è riscaldare il cuore perché possa tornare a desiderare, a volere, a riprendere il cammino. Ciò è possibile perché la vita riprende ad avere un respiro, non è affannata sul piccolo presente, non è sepolta dalla delusione. 

Lasciando riverberare l esperienza dei due di Emmaus, non sono le nostre parole ad essere efficaci, ma quando il cuore è abitato dalla Scrittura. Quando essa sta orientando le nostre decisioni e il nostro desiderare, il cuore allora può parlare al cuore dell altro, ed è la Parola del Signore in noi che apre un orizzonte di comprensione e di vita che permettono di respirare. E’ quello che è accaduto ai due discepoli.

Colpisce nel brano di Isaia, l insistenza dell “Alzate la voce con forza”, del “Gridate…”. Espressioni che sottolineando che per consolare è necessario rompere il muro che il dolore alza attorno a sè: il dolore ci rende sordi, ci rende impermeabili.

Ci capita, quando qualcuno sta ripetendo ossessivamente il dolore che lo angustia, di dover alzare la voce gridargli: “Basta! ascoltami!” Un lutto, un fallimento (di qualunque genere), ha una forza che ci rende refrattari a qualsiasi altra prospettiva. Taci! Ascolta! Respira, perché l angoscia ti sta soffocando.

Parlare a cuore a cuore, consolare è dare vita, è dischiudere un futuro sul quale possiamo riprendere a voler vivere. È un prestare il proprio cuore, il proprio battito (perché sei in questo momento consolato), al cuore dell altro. Perché venga rianimato

È prestargli quella poca fede e speranza che mi abita per ravvivare un po di luce dall alto. Senza sostituirsi a lui, ma suscitando libertà. La sua.