Care sorelle, consacrate e laiche; cari fratelli, laici, diaconi e presbiteri. Stiamo componendo il volto della Chiesa raccolta in questo Giovedì santo nella Cattedrale, luogo simbolico di unità e di comunione.

Nel vangelo secondo Luca ritorna più volte quell’“oggi” che anche stamattina è risuonato nella sinagoga di Nazareth: “Oggi si è compiuta questa Scrittura che avete ascoltato”. Questa Scrittura – la profezia di Isaia – si compie per noi raccolti in questo ‘oggi’ della storia, nel nostro ‘oggi’ di Chiesa, nell’‘oggi’ singolare che ciascuno sta vivendo. Penso in particolare a questo ‘oggi’ per noi, presbiterio della Chiesa di Piacenza-Bobbio. Se la profezia di Isaia non avesse avuto e non avesse un ‘oggi’ resterebbe una illusione, dispersa nel tempo.

La celebrazione che stiamo vivendo è consegnata al compiersi di una promessa: “lo Spirito del Signore è sopra di me, per questo mi ha consacrato con l’unzione”. Ciò che è avvenuto il giorno della nostra ordinazione assicura che lo Spirito del Signore è, oggi, su ciascuno, perché la consolazione e il suo ministero continuassero ad essere assicurati dentro alla storia degli uomini. Credo sia decisivo associare la nostra consacrazione a questa finalità: siamo stati scelti perché nessuno si senta in balìa di sé stesso e degli eventi. Scelti e mandati per annunciare, per fasciare, per prospettare liberazioni e libertà.

“Mi ha consacrato”. Per il passato ‘consacrato’ equivaleva dire essere separato, distante, intoccabile dalla storia e dalle relazioni. In realtà nella consacrazione non c’è separazione se non perché portatori di una novità che non ci appartiene. Conquistati dentro alla storia dall’azione dello Spirito Santo e riservati per una missione che ha a che fare con Dio stesso. Consacrati nello Spirito Santo con tutta la nostra umanità che, in forza di questa presenza, diventa strumento di grazia. Riconciliamoci con la nostra carne e con quella dei nostri fratelli e sorelle che il Signore ha scelto e continua a scegliere per operare dentro alla storia. Non è perfetta. Eppure è necessaria per l’opera di Dio.

La Parola di Dio oggi, in questa celebrazione così singolare, è destinata a cuori piagati, a prigionieri di ogni sorte di schiavitù, a coloro che sono colpiti nella capacità di vedere, agli afflitti. C’è un ‘oggi’ di riscatto per questa umanità desolata: cioè abbandonata e lasciata nella sua solitudine. Ma prima di pensare agli altri, ai quali siamo inviati, sentiamo rivolta a noi l’opera di Dio che consola. A noi, a ciascuno, è promulgato un anno di grazia. Non ci deve far paura il sentirci e lo sperimentarsi poveri. È la condizione per scoprirci per primi raggiunti dal lieto annuncio del Vangelo. Se non proviamo la consolazione del Signore che ci predilige perché miseri, potremmo rischiare di accostare i nostri fratelli e sorelle in modo asettico, senza compassione. Non saremmo in grado di far vibrare la nostra passione per ciascuna loro condizione. Anche in noi ha effetto la cronaca che sa di morte, le immagini di assurda violenza, il pianto sconsolato. E guai se non fosse così. Guai se anche noi non provassimo almeno in alcuni momenti la mancanza di parole e lo scandalo del dolore. A noi è chiesto di deporre l’“abito da lutto”, che rivestiamo ogni volta che prevale in noi ciò che è finito, che non c’è più. L’abito di una giornata senza speranza. L’abito dei nostri piccoli fallimenti e delle nostre delusioni. Uno di noi, in un incontro avvenuto qualche settimana fa, invitava i preti più giovani a “cogliere il centuplo che stiamo ricevendo”. Le ho sentite parole illuminate e fondate in uno sguardo guidato da quello Spirito che abbiamo ricevuto nell’ordinazione, e che è secondo la promessa di Gesù. Lui ci ha assicurato il centuplo. Certo, unito a molte tribolazioni. Sono convinto che un modo per rimanere alla sequela di Gesù sia anche questo: di dare credito a ciò che Lui ci ha offerto nel momento in cui ci ha invitati a seguirlo. Ci ha chiesto di lasciare (cosa che peraltro sottolineiamo immediatamente, perché ci costa), ma per trovare. Il Signore ci sta già dando motivi di consolazione, cioè conferma che non ci sta lascando soli. E che è fedele.

Aiutiamoci, sosteniamoci a dare un nome e un volto alla promessa di Dio che si sta compiendo. Ad esempio, le sintesi dell’ascolto sinodale – vi assicuro interessanti oltre che numerose – ci stanno consegnando la fiducia di tanti nostri fedeli laici che non è venuta meno, anche dentro a questi tempi travagliati. E se la consolazione del Signore ci stesse raggiungendo proprio attraverso di loro? Per quanto può essere vero, sarebbe la conferma del dono che possiamo essere gli uni per gli altri. A volte certe nostre stanchezze (peraltro motivate) possono essere alleggerite dai nostri fratelli e sorelle nella fede. Dobbiamo accorgercene. Ancora, essi ci rinviano la convinzione della forza dei sacramenti celebrati, rispetto alle prove della vita. Forse ci è chiesto di verificare il modo con il quale trattiamo questa fonte di grazia. Se parlano poco può dipendere anche da come li viviamo e li celebriamo…

Tra poco saremo richiesti di rinnovare le promesse fatte nel giorno della nostra ordinazione. Con diversa consapevolezza e con un nuovo significato, oggi – come ogni anno – ci è chiesto di riconsegnare la nostra volontà e la nostra adesione a Gesù. Anche questa sottolineatura la prendo in prestito da un prete giovane che avvertiva la necessità di ritrovare, dentro al nostro fare, la fedeltà alla sequela. Oggi come allora siamo ricondotti a ri-dire quel sì che ci permette di recuperare il nostro essere discepoli: altrimenti perde senso tanto nostro agitarci. È necessario smettere i panni degli eroi infaticabili, instancabili, per essere testimoni credibili che Dio tiene fede alle sue promesse. Che è Lui che viene incontro alla nostra debolezza e alle nostre fragilità. Perché allora -con l’Apostolo Paolo- possiamo dire anche noi che è allora che “sono forte”. Il nostro ministero si rinnoverà non perché metteremo in atto chissà quali nuove strategie pastorali, ma se recupereremo la freschezza del nostro desiderio di riprendere il cammino dietro a Lui, verso dove ci guiderà.

Oggi ci è consegnata la missione per la quale siamo stati consacrati: essere ministri di consolazione per chi ha il cuore spezzato, per chi guarda la vita dalle sbarre della propria schiavitù/prigionia, per chi è così afflitto da essere inconsolabile. Questa è la lieta notizia: c’è un tempo di grazia per tutti.

Consolare (alla lettera “lenire insieme”) è riuscire a non far sentire soli. Soli ad affrontare le avversità. Soli di fronte al quotidiano con la sua apparente scialba ripetitività. Consolare per rendere sostenibile qualsiasi peso: ci si affianca a chi si sente solo per far amare di nuovo la vita.

Questo ministero, che è annuncio del volto di Dio che si accompagna e cammina con noi, vive di relazione: perché in essa il Signore opera oltre ogni nostra previsione. Giocarci in relazioni autentiche perché il risultato sorprende sempre. E il ministero vive di relazioni perché non ci è chiesto di assolvere al mandato da soli, ma insieme. Non cadiamo nell’illusione di poter giungere a tutti. Anche questo è consolante: non siamo soli! Non è che un certo affaticamento e un livello di perdita di motivazioni e di entusiasmo sia frutto di un lavoro condotto in maniera individualistica? Accettiamo la sfida del camminare insieme!

“Non guidati da interessi umani, ma dall’amore per i nostri fratelli” (così saremo interrogati dalla liturgia del Rinnovo delle promesse). Purificare le intenzioni del nostro agire, per metterci in sintonia con l’Amore di Gesù per ogni essere umano. Chiediamo questa Grazia oggi, chiedetela cari fratelli e sorelle con noi al Buon Pastore: l’amore per i fratelli e le sorelle che ci sono affidati sia la via per dare e per trovare consolazione. In questo nostro oggi: certamente tempo di prova, ma ne siamo certi anche tempo di misericordia.