1Re 8,22-23.27-30
1Cor 3,9c-11.16-17
Mt 16,13-19

Stiamo vivendo la grazia di un giubileo, legata a questo luogo che raccoglie e abbraccia l’intera comunità diocesana. Un luogo di preghiera simbolo di comunione. Infatti qui, attorno al Vescovo, è l’intera Chiesa particolare che celebra, professando la sua fede. E ho ritenuto che anche voi non potevate mancare a questo convergere, per ricordare a tutti la vostra partecipazione alla vita della comunità ecclesiale e con voi tutti quei monasteri invisibili dove la preghiera si impasta con la sofferenza, con la vecchiaia e non di rado con la solitudine. Oggi voi date voce e volto a questa ricca e indispensabile presenza orante. Necessaria come l’aria che respiriamo.
La Chiesa ha concesso in questo anno giubilare una grazia (indulgenza) destinata a liberarci dalle conseguenze del peccato. Questo avviene non per un gesto ‘magico’ ma proprio per un atto di fede che attinge alla ricchezza di santità e di grazia della Chiesa. Un patrimonio a cui anche voi – come ogni battezzato e comunità – date il vostro apporto.
Lasciamoci condurre da queste tre pagine stupende della Scrittura nelle quali il Signore oggi fa risuonare per noi una Parola che salva.
Salomone, dopo aver costruito il Tempio, rimane stupido quasi incredulo al pensiero che quel Dio che non può essere contenuto dai “cieli e dai cieli dei cieli”, sceglie di “abitare la terra”. Con lui anche noi chiediamo la grazia dello stupore per questa immanenza dell’amore di Dio, che decide di farsi vicino, a portata di mano, di sguardo, di ascolto. È il segno della sua fedeltà all’Alleanza. Sembra, e lo è, un paradosso, che l’infinitamente grande, colui che non può essere com-preso sia raccolto in uno spazio, nell’infinitamente piccolo. Per quanto un tempio possa essere grande e bello.
Questa vicinanza ci fa sperare, con Salomone, che le preghiere, il grido accorato sia realmente ascoltato e che la sua misericordia colmi ogni distanza procurata con il nostro peccato. Ecco che cosa, prima di tutto, ci ricorda la Cattedrale: la certezza, la garanzia che Dio è fedele. La sua è un’Alleanza veramente eterna. In questo senso la centralità dell’altare, in essa, è il richiamo che nel sacrificio di Cristo Dio ha stipulato, nel suo sangue, l’eterna e definitiva alleanza.
Nella prima lettera ai Corinti S. Paolo, che viene dalla tradizione ebraica e farisaica, per la quale il Tempio è il luogo della dimora di Dio, il luogo della custodia delle tavole dell’Alleanza…, trasforma il luogo fisico in un ‘luogo’ umano: “non sapete che siete tempio di Dio e che lo Spirito di Dio abita in voi?”. Se l’abitare di Dio in un luogo era sorprendente e risultava ‘impossibile’, Paolo porta all’estremo questa rivelazione: “Santo è il tempio di Dio, che siete voi”. Lo Spirito di Dio che è amore, che è la vita stessa di Dio, santifica quell’umano che nella fede accoglie Gesù. Lui è il fondamento perché si possa edificare il tempio nell’umanità redenta. La sottolineatura “che siete voi” dice che è la comunità di Corinto questo tempio. Certamente ognuno è sua parte, ma il segno è la comunità cristiana. E S. Paolo aggiunge un elemento ulteriore: il tempio deve essere custodito, protetto perché è fragile, addirittura può essere distrutto. Fragilità che evoca un altro passaggio dell’apostolo quando ricorda che noi custodiamo un tesoro in vasi di creta. Del tempio di pietre noi conosciamo bene la necessità della manutenzione ordinaria e straordinaria. Ecco un altro tratto paradossale: ciascuno è parte del tempio, della comunità, è edificato sul fondamento in comunione con le altre pietre vive, ma è responsabile affinché il tempio sia difeso. Il radicamento in Gesù edifica, il mancato riconoscimento della presenza dello Spirito Santo nell’altro e nella comunità, distrugge, mina la solidità. Allora oggi questo edificio rinvia all’edificio spirituale che è la comunità, che siamo noi. La sua e nostra bellezza sta qui: nel dar risalto a chi abita questo tempio.
Infine la pagina evangelica con quella domanda che attende una risposta: “Ma voi chi dite che io sia?”. Ancora una volta una domanda rivolta ad un “voi”. Che cosa dite di Gesù? Che cosa narra la vita delle vostre comunità della gioia dell’essere al suo seguito? A volte diciamo: in quella comunità si respira un bel clima, si sta bene… È una conferma del radicamento nel Signore e il frutto della gioia pasquale. Ma una comunità che ha al centro Gesù è anche motivo di inquietudine. Di sana inquietudine. La vita monastica ha un fascino, anche oggi. Forse in modo particolare oggi. Perché? Dovremmo chiederci. Cosa è eloquente? Cosa parla di Vangelo? Cosa rinvia a quel fondamento? Forse non spetta a noi dare risposte, ma sono certo che a voi, come a noi tutti, interessa rinviare a ciò, a Colui che abita questo tempio.
C’è una parabola che appartiene a questo tempio-Cattedrale che è stato l’intervento ‘pesante’ di S. Giovanni Battista Scalabrini che ha voluto eliminare dalla Cattedrale tutto ciò che nel tempo era stato aggiunto e che, a suo avviso, snaturava l’idea originaria. Forse è proprio questa l’opera dello Spirito santo: di togliere tutto ciò che nel tempo, sia a livello personale che comunitario, appesantisce il progetto originario. Ritornando all’essenzialità, alla pulizia di uno spazio che può diventare ‘luogo’ che fa alzare lo sguardo e che riesce ad abbracciare tutti, senza che nessuno si senta a disagio.