In questa Veglia la nostra assemblea vedrà la presenza di due gruppi di persone rivestite di una veste bianca: i più numerosi (la indossano già) sono quanti al termine di un cammino di riscoperta del loro battesimo hanno ricevuto stamattina la veste di lino che narra del cammino che il Signore ha fatto fare loro. Tra poco rivestirò con un’altra veste bianca i catecumeni che in questa celebrazione pasquale saranno immersi nella morte e risurrezione di Gesù per una vita nuova. In realtà tutti dovremmo rivestire questa veste, segno del nostro battesimo. Una veste, ci è detto, da tenere bianca fino all’incontro definitivo con il Signore. Ma che rimane tale non per bravura bensì perché ci si mantiene in comunione con Gesù, che continuamente ci purifica e rinnova.
L’immagine della veste dice in modo chiaro che la stessa non può andarci bene nelle diverse stagioni della nostra vita. È la metafora della fede che o aderisce alla nostra persona in cambiamento, oppure diventa irrilevante, rischiando di appartenere a quel passato che si tira fuori per le grandi occasioni. In realtà poche perché abbiamo dimenticato anche la data del nostro battesimo: festeggiamo il compleanno, qualcuno l’onomastico, ma il battesimo per lo più non è tra le date significative della nostra vita.
Stanotte anche il Vangelo della risurrezione ci parla di “un giovane, seduto sulla destra, vestito di una veste bianca”. Qualcuno identifica questo personaggio enigmatico, che rappresenta la giovinezza della vita, con il battezzato che siede sul trofeo -diremmo- della vittoria, cioè il sepolcro. Dalla sua bocca un invito rivolto alle donne a non avere paura perché Gesù, il crocifisso, è risorto. Non solo. Egli consegna un mandato da parte del Signore: “vi precede in Galilea. Là lo vedrete”. Nella Galilea era iniziato tutto, e ora riprende. Gesù precede, non si deve andare a portare Gesù perché nessuno lo può possedere. Si tratta di riconoscerlo. Pasqua è un sempre nuovo inizio. È la ripresa del discepolato dentro ad una storia dove Lui è vivo e presente.
Il discepolo che nasce a Pasqua è disposto a lasciarsi sorprendere da Lui. Stasera che torno a casa, domani tra i miei conoscenti, poi al lavoro o a scuola… lì ho l’appuntamento con la sua volontà di incontrarmi e di salvarmi. Mi precede in particolare laddove l’umano invoca considerazione. Dove la carità è la grammatica dell’incontro, dove la fraternità è più minacciata. Prima ancora che essere luoghi dove portare qualcosa, sono occasioni nelle quali posso godere della sua visita e del suo prendersi cura di me, della mia fede. Se la Galilea è il luogo dove sono inviato è perché prima di tutto là mi raggiunge il Risorto.
Non ci è permesso di estraniare il Signore da spazi della nostra esistenza, per collocarlo in altri a nostro piacere. Lo trasformeremmo in un idolo. Ma a questa operazione Egli si è sempre sottratto. L’assenza del corpo nel sepolcro se dice una mancanza, dall’altra rivela la libertà del Signore di assumere il corpo della Chiesa, del fratello, del povero. Nelle parole dell’annuncio pasquale poi il plurale sostituisce quell’io che da solo si smarrisce. La testimonianza che voi catecumeni e neocatecumeni date è della grazia rappresentata da una comunità che non veste i panni della perfezione, ma che con verità, non con falsa modestia, continua a considerarsi per prima peccatrice e quindi bisognosa di misericordia. E nella fragile ricerca di fedeltà sa che il Risorto l’ha scelta per essere strumento di grazia.
Buona Pasqua! perché il Crocifisso risorto ci doni la gioia di riprendere il cammino, nella condivisione della fede, nel narrarsi gli uni agli altri che è vivo e che abita gli spazi del tempo che ci è dato.