Is 52,7-10 Eb 1,1-6 Gv 1,1-18
“Come sono belli sui monti i piedi del messaggero che annuncia la pace, del messaggero di buone notizie che annuncia la salvezza”. È risuonato lo stupore e la gioia per i piedi del messaggero di buone notizie. Quanto è vero! Perché le buone notizie camminano con i piedi degli uomini e delle donne che attraversano, superano i monti: ciò che hanno in cuore è più forte di ogni ostacolo. Vengono dai monti anche perché il monte è il luogo della manifestazione di Dio, luogo dell’incontro con Lui che diventa benedizione. Si sale sul monte per portare promesse di alleanza.
Tra i piedi che nella storia hanno lasciato orme sulle quali continua a venire la pace e la buona notizia del Vangelo vorrei ricordare oggi quelli di Francesco di Assisi. Quest’anno ricorrono gli 800 anni dell’invenzione del presepe. Un’intuizione spirituale che è diventata popolare in ogni angolo della terra. Purtroppo in molti casi l’abbiamo snaturata, trasformandola in un simbolo identitario e divisivo. Sembra un paradosso che siamo riusciti a farlo diventare un campo di misere battaglie ideologiche. Per qualcuno si è ridotto a puro spettacolo, allestimento da visitare (al pari delle vetrine del corso) ammirandone l’estetica nell’indiscutibile genialità delle opere.
Per non accettare di cadere anche noi in queste derive, andiamo a recuperare il motivo che ha spinto il Santo di Assisi a metterlo in scena, essendo stato allora un vero e proprio presepe vivente. Il suo primo biografo ci testimonia che Francesco, chiamato a sé Giovanni, un suo caro e nobile amico, gli disse: “Se vuoi che celebriamo a Greccio il Natale di Gesù, precedimi e preparami quanto ti dico: vorrei fare memoria del bambino nato a Betlemme, e in qualche modo vedere con gli occhi del corpo i disagi in cui si è trovato per la mancanza delle cose necessarie a un neonato, come fu adagiato in una greppia e come giaceva sul fieno tra il bue e l’asino” (Tommaso da Celano, Vita prima). Risulta chiaro che il Poverello crea il presepe perché attraverso gli occhi del corpo possa contemplare la condizione nella quale Gesù nasce, quale fu il disagio per l’estrema povertà nel quale si manifesta Dio. Il presepe è una via che favorisce l’approdo al mistero, alla grandezza della scelta di Dio presente nel Natale. Betlemme, nella povertà del suo contesto, cioè nell’evidenza di tutto ciò che manca, fa risaltare la sproporzione tra la realtà e la forma nella quale si dà. La grandezza nella piccolezza, la divinità nell’umanità privata di tutto.
Che Francesco abbia cercato il modo per penetrare nel mistero di Gesù è particolarmente vero se pensiamo che il presepe a Greccio è ridotto all’essenziale: la scena della greppia e la presenza del bue e dell’asino. L’unico elemento aggiuntivo sei tu, colui che contempla. Francesco non pensa allo spettatore, ma all’attore. Egli, catturato dal mistero che ha innanzi, diventa contemporaneo con quello che si stava celebrando. È questo il segreto – che mi sembra stiamo smarrendo – del presepe: la rappresentazione è solo la scena che favorisce ciascuno ad entrare, non prima di tutto per capire ma per vivere quella notte, per lasciarsi stupire e sorprendere. Per far risuonare le parole dell’angelo: “oggi nella città di Davide è nato per voi un Salvatore”. È nato proprio per te. È nato per me. Perché sono io il primo ad aver bisogno di salvezza. Davanti alla mangiatoia prende vita un combattimento tra la sua offerta di amore che salva e le nostre resistenze. Spesso mascherate dentro all’abitudine, alla tendenza di relegare il tutto nel passato o nei buoni sentimenti. Allora la buona notizia non è più tale. E ci si trova dalla parte degli abitanti di Gerusalemme, pigramente assonnati.
Ma non possiamo fermaci qui. Il presepe a Greccio non si è concluso nella geniale rappresentazione. Ha il suo momento culminante nella celebrazione dell’Eucaristia che ne segue. La contemplazione del mistero dell’incarnazione si prolunga immediatamente: Francesco – ci dicono le Fonti francescane – riveste l’abito diaconale e dà voce a quanto assaporato nell’adorazione del mistero. Potremmo dire che il presepe in quella notte è stato liturgia della Parola che ha preso carne e che ha aperto all’annuncio, alla lode e alla gioia. Al rendimento di grazie. In continuità con la piccolezza del segno di Betlemme, il pane e il vivo risultato del tutto coerenti con il mistero dell’Incarnazione. Un segno altrettanto ordinario che può essere muto, insignificante, oppure straordinariamente rivelativo di un Dio che si consegna. Nell’Incarnazione come nella Pasqua. La stessa mangiatoia su cui è deposto il Bambino non può non alludere al destino di quel bambino che si fa cibo, nutrimento per tutti. Per tutti è nato. Per tutti si è donato. Per tutti c’è un amore disponibile, che entra nel cuore passando attraverso gli occhi del corpo, che si posano stupidi su questo bambino nella notte di Betlemme.
Buon Natale!
25 Dicembre 2023 Cattedrale di Piacenza – Bobbio