Cattedrale
II di Pasqua
At 4,32-35
1Gv 5,1-6
Gv 20,19-31
Con questa celebrazione della Madonna del popolo siamo introdotti nella storia della nostra Cattedrale, della nostra città, della nostra diocesi. C’è un affidamento collettivo che dal 1617 si rinnova: da quando il vescovo Claudio Rangoni diede inizio a questa festa. In una sequenza ininterrotta, anche se con forme diverse, si è avvertita la necessità di collocarci tutti sotto un manto di benevolenza materna.
Il titolo attribuito a Maria, la Madre, dice popolarità, inclusione, parla della preoccupazione che nessuno si senta estraneo. La pagina degli Atti, che ha aperto la Liturgia della Parola di questa domenica in Albis, o della misericordia, ci parla della moltitudine di quanti erano diventati credenti. La sfida che da subito la Chiesa ha avvertito prioritaria è di trasformare una moltitudine di persone in una comunità: “avevano un cuore solo e un’anima sola”. I discepoli che rinascono a Pasqua non si accontentano di contarsi, di crescere di numero. Va ricordato che in questo passaggio dove la mancanza di Gesù, che si sottrae continuamente ai loro occhi, è motivo di disorientamento, la madre di Gesù è presente. Partecipa in forma discreta e insieme necessaria al processo di comunione. Quindi il titolo di Madonna del popolo lo possiamo attribuire anche al suo prendersi cura, in senso materno, di quel popolo di Dio che viene generato dall’azione dello Spirito Santo effuso dal Risorto.
Come avviene questa opera dello Spirito Santo? Quando un gruppo di discepoli respira di quello Spirito che viene soffiato su di loro?
“Nessuno considerava sua proprietà quello che gli apparteneva, ma fra loro tutto era comune”. È nell’indole umana, allora, tendere a identificare l’uso con la proprietà: “delle mie cose…”. Per il fatto che qualunque cosa (beni materiali o qualità personali o comunitarie) mi appartiene non pregiudica una precisa finalità, un uso che sia per il bene di tutti. A prima vista potrebbe essere giudicata una privazione, un impoverimento, al contrario l’effetto è una appartenenza, un rendersi parte gli uni gli altri, che fa crescere. L’episodio dei pani e dei pesci, la parabola dell’esistenza di Gesù, riassunta nel gesto eucaristico, ne sono la conferma. Non lo possiamo fare in questo momento, ma proviamo a pensare quanto lo confermi il suo contrario: il possesso con un uso ego-logico porta alla disgregazione, all’ingiustizia e quindi all’aumento della insicurezza.
“(…) venne Gesù, stette in mezzo”. Gesù porta la pace non rimanendo a distanza, al sicuro senza lasciarsi coinvolgere: sta in mezzo ad una comunità di discepoli poco affidabili. Così rinnova la sua fiducia. Fintantoché questo centro non è occupato da Gesù, che viene per stare in mezzo, al suo posto si colloca qualche idolo o qualcuno (spesso i nostri principi, l’esercizio di qualche forma di potere o le nostre ambizioni). Non è casuale che il crocifisso risorto torni otto giorni dopo. Ci è facile individuare in tale sequenza la celebrazione pasquale dell’Eucaristia. Ricollocare continuamente Gesù al centro ci allinea nella condizione di discepoli. Ogni domenica noi celebriamo questa centralità, il nostro centro. Ci ri-centriamo.
È assolutamente delicata la narrazione della figura di Tommaso: sia del fatto che non c’era la prima volta (può essere un modo per dire la libertà nelle scelte o le occasioni che si perdono …?), come pure il constatare che il Risorto otto giorni dopo viene per lui. Infatti dopo un saluto a tutti si rivolge direttamente a Tommaso. È tutto per lui: la sua incredulità vale un ritorno. Già sta in mezzo a una compagnia di discepoli inaffidabili, e torna per questo che continua ad essere incredulo. Questa è la misura del Suo amore. Non c’è nessuna idealizzazione della comunità che nasce dopo Pasqua. Il suo stare in mezzo è la condizione per ritrovare continuamente la fede e per vincere le paure che non vengono meno.
“A coloro a cui perdonerete i peccati, saranno perdonati…”. Una moltitudine che diventa comunità grazie ad un perdono disponibile. Non riguarda solo la qualità delle relazioni, segnate dal perdono fraterno, qui c’è il perdono di Dio, la manifestazione di quella misericordia che è in grado di ripristinare il volto del figlio di Dio sfigurato dall’esercizio orgoglioso e superbo della libertà. La coscienza di non essere una comunità di perfetti passa attraverso l’esperienza che c’è un amore del Padre presente che non dipende da noi, dalla nostra presunzione. Si tratta di quella comunità che esercita la misericordia di Dio.
E la misericordia di Dio ha anche il nome dell’ospitalità di chi è all’apparenza mancante, privo di una condizione per stare in una società della competizione e dei risultati. La Casa della Carità di cui oggi facciamo memoria del suo inizio 26 anni fa, è un’ulteriore Parola che ci ricorda come, per scardinare le logiche dell’ego, sia necessario collocare al centro il segno più esplicito della presenza discreta ed efficace del Crocifisso risorto.
In questa festa che ci vede popolo in cammino, come tra poco lo esprimeremo con la processione tra le vie della città, coltiviamo in noi il desiderio di pensarci come un dono (per ciò che custodiamo in noi), sicuramente non una comunità priva di debolezze e peccati, ma fiduciosa che la potenza della Risurrezione di Gesù può portare il compimento di farci essere sempre più popolo, di Dio.




