Sir 35,15b-17.20-22^
2Tim 4,6-8.16-18
Lc 18,9-14

Quando un anno fa aprivamo il giubileo per i 900 anni dell’inizio della costruzione della Cattedrale non potevamo pensare che oggi la conclusione sarebbe stata illuminata dal corale rendimento di grazie per il dono della canonizzazione di s. Giovanni Battista Scalabrini. Idealmente è proprio lui a convocare la comunità diocesana e il presbiterio riuniti attorno al Vescovo, la comunità civile con le autorità, le famiglie dei missionari e missionarie rappresentate dai superiori generali e una bella rappresentanza delle comunità dei migranti. “Una bella” -e aggiungo io – “saporita macedonia”, come ci aveva definito papa Francesco in aula Paolo VI. Vi saluto tutti/e e vi ringrazio per la vostra partecipazione.
La nostra Cattedrale è il luogo più adatto per raccoglierci in un grande abbraccio perché il vescovo Scalabrini è parte di questo spazio ecclesiale, non solo perché vi è custodita ed esposta l’urna che custodisce il suo corpo, ma anche perché la Cattedrale è stata una delle sue preoccupazioni e del suo impegno pastorale. Si è adoperato per la conservazione e il restauro di un edificio gravemente segnato dal tempo e da interventi che ne avevano minato la stabilità. Risuonano le parole rivolte a Francesco d’Assisi dal crocifisso a s. Damiano: “Va’ e ripara la mia chiesa”. Un mandato solo all’apparenza edile. L’aspirazione di un pastore è senz’altro di operare perché la Chiesa che gli è affidata manifesti la bellezza originaria: di essere volto di Cristo, volto attraente, eliminando tutto ciò che nel tempo può aver compromesso ciò che è essenziale e indebolito la sua solidità. Nell’opera rivolta a questo edificio può a pieno titolo essere riassunta l’opera del santo vescovo Scalabrini a favore dell’edificio spirituale che è la Chiesa, il popolo di Dio.
Oggi celebriamo la Giornata mondiale missionaria. Mi è parso proprio che qui potesse esserci consegnata la chiave di lettura della celebrazione che stiamo vivendo. Leggiamo in filigrana sicuramente la vicenda spirituale del nostro Santo: giovane sacerdote, Scalabrini aveva espresso il desiderio (e la volontà) di entrare a far parte del Pontificio Istituto per le missioni estere (il PIME). Anche se non accolta dal Vescovo la sua richiesta, l’anelito missionario non svanì dal suo cuore di pastore. Tutt’altro, si innestò profondamente. Per un certo verso egli anticipò ciò che quasi un secolo dopo verrà maturato, grazie al Vaticano II. La missione non è associata unicamente agli Istituti missionari, maschili e femminili, ma permea la Chiesa tutta. Cosicché la dimensione missionaria è recuperata come profilo della Chiesa e della sua esistenza. Ovunque essa si trovi.
Nell’obbedienza al suo vescovo G.B. Scalabrini coltiva e investe lì dove è mandato la passione missionaria. Perché – sottolinea – osservando l’esempio dei santi, scopre la sorgente della missione: in loro “lo zelo della gloria di Dio li consumava, né li lasciava riposare un istante” (Lettera ai maestri e maestre delle scuole catechistiche). È l’amore per il Signore che spinge a partecipare, a condividere questa gioia con gli altri. Tale desiderio ci trasforma in testimoni: ti narro ciò che mi sta a cuore, perché tu lo possa vivere a tua volta.
Se si investono risorse (umane ed economiche) per annunciare Gesù a chi non lo conosce, perché non investire allo stesso modo energie e passione perché Gesù non sia smarrito da chi parte dalla propria terra? Così scrive al Papa Pio X all’inizio del ‘900. Egli constata amaramente che aver allontanato Gesù Cristo dall’orizzonte sociale e culturale ha fatto smarrire “l’anima che tutto vivifica”. Lo smarrimento del Vangelo e della sua carica ‘politica’ impoverisce l’umano. Per questo non rinuncia mai ad intervenire anche politicamente; La vita civile e politica è l’orizzonte dell’uomo, a cui il Vangelo ha qualcosa da dire.
Sorprende come Scalabrini guardi le importanti trasformazioni in atto al suo tempo. A differenza di un clima di sospetto e di opposizione presente in molti ambienti cattolici ed ecclesiastici, egli è convinto, e lo scrive, che “il Vangelo è chiamato a dirigere coteste trasformazioni economiche ed industriali”. E aggiunge, in maniera affatto ideologica, “dobbiamo altresì essere uomini del nostro tempo”. Affermazione che non asseconda mode e novità, abbandonando l’originalità e il contributo della fede cristiana, quanto piuttosto esprime la convinzione che ciò che sta accadendo (i flussi migratori) sia parte di un piano che Dio ha sulla storia dell’umanità: vale a dire “l’unione in Dio per Gesù Cristo di tutti gli uomini di buon volere” (Discorso tenuto a New York nel 1901). Se la missione è originata dalla passione per le persone che possono smarrire la fede (“perché la fede è forse la cosa che da un cattolico si perde più facilmente in terra straniera”), tuttavia essa non si limita al preservare, al difendere, ma ad essere al servizio di un progetto di Dio che si compie anche dentro ai drammi della storia. Allo stesso modo l’intelligenza (‘spirituale’) con la quale guarda lo sviluppo tecnologico ed economico, gli permette di cogliere insieme alle fatiche e ai rischi, le possibilità che si aprono.
Mi verrebbe da dire che il Vescovo Scalabrini, rispetto alla sua prima visione di missione (verso l’oriente, quindi una prima evangelizzazione) matura la coscienza che è necessario evangelizzare il progresso e i fenomeni sociali in atto. Così attualizza le parole di Gesù: “fino ai confini della terra”. Il Vangelo deve raggiungere le nuove terre dove gli uomini sono condotti o spinti ad andare. Quanto è attuale questa visione. Per noi ‘la terra nuova’ sono gli orizzonti nei quali siamo condotti con le nuove tecnologie, con le nuove sfide provocate dalle emergenze. La risposta che Scalabrini individua alla sfida del suo tempo ha qualcosa da dire anche a noi: la fede per essere custodita e per non essere in balìa delle trasformazioni o delle ‘migrazioni’ (che possono essere anche culturali), chiede un ‘ambiente’, fatto di pratiche (religiose) e di elementi culturali che rinviano alla terra di origine (’patria’), alla lingua (da non perdere e da imparare) e alle tradizioni. È interessante sottolineare la sua raccomandazione di imparare la lingua della nuova terra. Si tratta di non smarrire le proprie radici nel radicarsi in una terra nuova.
Vorrei concludere ritornando alla parabola evangelica ambientata al tempio, dove ci sono queste due figure: il fariseo e il pubblicano. Mi sembra che Scalabrini indichi una lettura di questa pagina quando mette in relazione il tempio con ciò che sta fuori (le relazioni e la vita ordinaria): “Oggi … bisogna proprio che il sacerdote, e il parroco specialmente, esca dal tempio, se vuol esercitare un’azione salutare nel tempio. Però intendiamoci: esca dal tempio, ma dopo aver attinto dalla pietà e dalla preghiera lume e conforto”. Egli indica una circolarità virtuosa tra momento celebrativo e azione e relazioni pastorali. Il fariseo non attinge dalla sua preghiera, dal suo stare davanti a Dio niente che gli permetta di essere evangelizzatore: guarda tutto a partire da sé e dalla sua presunzione. E il suo sguardo malato sugli altri compromette la sua relazione con Dio: non uscirà giustificato!
Ecco ciò che lo sguardo missionario di S. Giovanni Battista Scalabrini ci consegna: una postura spirituale tale che tra noi e il Signore ci sia sempre la presenza dell’altro con le sue fragilità e povertà, per poter stare davanti all’Uno e agli altri con la consapevolezza del proprio bisogno di salvezza. Per poter dire con S. Paolo e con il Santo Scalabrini: “ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la corsa, ho conservato la fede”.