1Sam 16,1.4.6-7.10-13
2Cor 5,14-20
Lc 5,1-11
È bello ritrovarci quest’anno nella forma tradizionale a celebrare S. Vincenzo. Questo santo della carità verso i poveri ed insieme della formazione. Ai Padri della missione infatti fu ben presto affidata la formazione di futuri sacerdoti. E così per molti di voi sacerdoti S. Vincenzo è associato al tempo del Collegio. Attenzione ai poveri e formazione sono due forme di carità. Per cui solo all’apparenza potrebbero sembrare lontane tra loro.
Riguardo alla formazione oggi ormai è consolidata (nei documenti del magistero e spero anche in noi) l’esigenza e l’urgenza formativa. Che interessa tutti. Da tempo infatti si parla della prima formazione e di quella permanente (ormai in tutti gli ambiti, compreso quello professionale). Siamo consapevoli che la vita e il ministero continuano a plasmarle nostre persone sotto l’azione dello Spirito Santo. Così diventiamo discepoli, nella chiamata a vivere la carità pastorale, dentro alle relazioni ecclesiali – pastorali – fraterne. Proprio S. Vincenzo ci ricorda che coltivare la formazione è carità, è espressione della passione pastorale. E proprio perché avviene nell’intreccio delle relazioni, la formazione non può che essere comunitaria. Non possiamo nasconderci le resistenze presenti in una visione di questo tipico. Allora è opportuno chiedersi: a quali condizioni noi accettiamo realmente di lasciarci formare? Ci viene in aiuto la liturgia della Parola che stiamo celebrando. Raccogliamo insieme un invito, che attraversa le tre letture ascoltate. È l’invito a convertire lo sguardo. Il ministero ci trasforma, ci dà forma nuova se e quando muta il nostro modo di guardare.
Nella prima lettura abbiamo incontrato lo sguardo del Signore sul suo consacrato. Uno sguardo che impone una conversione prima di tutto al profeta Samuele, anche lui chiuso dentro ai criteri ‘tradizionali’, consueti: la scelta del primogenito, l’importanza data alla prestanza fisica, alla forza… Il Signore gli indica di guardare oltre, di non lasciarsi guidare da criteri di perfezione, dall’apparenza… né, dobbiamo dire conoscendo la vicenda di Davide, dalla garanzia morale, o dall’assenza di debolezze… Rimane la domanda: ma cosa vede il Signore? Perché allora proprio Davide? Le ragioni sfuggono alla nostra comprensione. Rimane il fatto che su di lui il Signore ha posto il suo sguardo di elezione. In Davide, questo possiamo riscontrarlo, non viene meno la disponibilità a convertirsi. A lasciarsi raggiungere dalla Parola profetica che lo riconduce alla verità di sé stesso e delle proprie scelte.
S. Paolo mette all’erta i cristiani di Corinto dal continuare a volgere lo sguardo sulle cose vecchie, quelle ormai passate. Quante volte il nostro sguardo sulle persone, nelle relazioni, rispetto alle condizioni e al ministero è inchiodato su ciò che ha segnato il passato. Come è difficile schiodare il cuore da quanto vissuto. Uno sguardo riconciliato, vale a dire fissato sulla forza del perdono di Dio, sulla sua forza generante, permette di liberarci dalle zavorre dei vissuti dolorosi. Ce lo siamo già detti, questo è particolarmente vero rispetto alle nostre relazioni presbiterali.
Perché ciò possa accadere decisivo è che ciascuno consegni al Signore la propria storia, comprese le proprie colpe. Con verità. Quando questo affidamento al mistero della riconciliazione avviene, allora permettiamo alla grazia di operare. Se al contrario rimaniamo dentro all’auto-giustificazione, non riusciremo a liberarci delle nostre debolezze e alimenteremo le divisioni. Per questo ci è chiesto di rinnovare (70 volte 7) la fiducia nell’alleanza con il fratello. Chiunque esso sia.
Infine la pagina evangelica che, come sapete, mi è particolarmente cara, ci mette davanti allo sguardo sulle reti vuote, che rappresentano ogni fallimento pastorale – personale… E quel gesto del lavare le reti dice la rinuncia (più o meno temporanea) di gettare le reti.
Quelli che Gesù incontra sono pescatori sconsolati e rassegnati. Delusi. Fintantoché lo sguardo si posa su quelle reti, questi sentimenti prevalgono e sono mortali. Quanta rassegnazione oggi si gioca nel nostro rapporto con il Signore e nel ministero che ci è affidato? E questo ci porta a dire che non vediamo prospettive.
Dopo aver parlato alle folle (Simone presta la sua barca perché la gente sia raggiunta dalla Parola di Gesù) Gesù si rivolge a lui. Fino a quando la Parola di Gesù non si rivolge a me/noi presbiteri e diaconi… non usciamo da questa condizione di ‘pescatori a riva’. Non possiamo dare per scontata la nostra condizione di discepoli, tanto più se la parola di Gesù non raggiunge la nostra precisa condizione.
Gesù rinnova, con l’invito a prendere il largo, la fiducia in questi pescatori, in noi: esci dalle secche demotivate della tua vita (“Non ha più senso… perché far ancora fatica?” …).
Simone non tace la sorpresa, fa presente le sue resistenze (“ci ho provato…tutta la notte”). “Ma sulla tua parola”. Sulla tua parola ho lasciato tutto e ti ho seguito; sulla tua parola ho accettato il ministero che mi è stato richiesto; sulla tua parola ho investito nel perdono; sulla tua parola… Quante volte? Solo se la nostra vita di presbiteri e diaconi è guidata dal “sulla tua parola” e non dai nostri criteri, è possibile gettare ancora le reti.
E allora lo sguardo si deve posare sulle reti piene: dei frutti raccolti quando mi sono fidato. Sposta il tuo sguardo sui frutti della vita affidata alla sua Parola. E allora anche oggi varrà la pena gettare le reti, porre la stessa fiducia in un lago che ci risulta poco pescoso. In un momento che non ha caratteristiche diverse da quelle già vissute. È chiesto di rinnovare la fiducia e anche solo osare di gettare le reti dall’altra parte della barca.