III Avvento – Cattedrale Piacenza
Sof 3,14-18
Fil 4,4-7
Lc 3,10-18
E’ la domenica del “Gaudete”: l’attesa ha in sé la gioia. A dire il vero è difficile che in noi prevalga la gioia dell’attesa, perché abbiamo fretta che ciò che aspettiamo si compia. L’attesa non è più nelle nostre corde, e tanto meno un motivo di gioia. In realtà, a ben pensarci, il nostro cuore palpita all’avvicinarsi di un incontro, di un appuntamento importante. La gioia è già nel pregustare/immaginare ciò che sta per accadere. Esercitarsi nell’attesa è una delle esigenze più forti di questo nostro tempo. Si fa sempre più necessario gustare la bellezza di attendere.
Questa celebrazione potrebbe stridere con l’invito alla gioia se pensassimo alla prossima chiusura della Casa della Carità unicamente come la fine di un’esperienza importante, bella. In questo caso prevarrebbe il sentimento di mestizia, di rimpianto per ciò che si poteva fare. Invece vogliamo lasciarci guidare dalla festa liturgica perché questo momento si illumini e si trasformi in un invito a gioire.
– Ho pensato che è motivo di gioia aver dato casa alla ‘Carità’. Non è l’unica Casa della carità presente nella nostra città e diocesi. Grazie a Dio la Carità ha tante case: anche stamattina sono entrato in alcune di esse visitando malati e infermi. Non le conosciamo, ma nelle nostre parrocchie ci sono tante case che profumano di Carità.
Ma essa è stata un richiamo forte di come la carità, quando si fa ‘Casa’, riesca a trasformare la vita. Le relazioni si concentrano non più su noi stessi, ma su chi è più debole e bisognoso di casa, di famiglia. La carità abita laddove il padrone di casa è chi è nel bisogno, perché fragile, debole… E quella casa si trasforma perché diventa casa per molti. Si sente ospitale.
– Questa, come ogni altra Casa dove la Carità pone il suo domicilio, è diventata un porto franco dove non ci sono tasse da pagare, un porto dove poter attraccare la propria barca sentendosi a casa. Per questo dobbiamo ringraziare le suore che si sono succedute e che hanno fatto vivere il carisma dell’ospitalità gratuita. Una testimonianza, la loro, che sa tanto di Vangelo, della semplicità disarmata dell’amore.
– La casa ha parlato anche attraverso chi, erroneamente, abbiamo chiamato ospiti. Ci sono stati maestri. Ho ricordato spesso che Paolo, il giorno del mio ingresso, è venuto a darmi il benvenuto “a nome della cittadinanza”. Non so se (tutta) la cittadinanza di Piacenza si ritrovi in questo straordinario rappresentante, ma di sicuro lui si è sentito di interpretare in quel momento i sentimenti e il pensiero di tutti. E’ proprio vero che i piccoli ci precedono nella logica del Regno. Noi al massimo ci potremmo sentire espressioni di una parte, non di un sentire comune. Lui ci ha ricordato di essere parte di un tutto e che ciascuno deve rappresentare tutti. La Casa della carità è casa di tutti, perché tutti si sentano di avere una casa comune.
E lasciando risuonare la domanda del vangelo anche noi stasera siamo chiamati a chiedere e a chiederci: “Che cosa dobbiamo fare?”. Che cosa dobbiamo fare perché la ‘Casa’ non rimanga vuota (di carità). Cosa dobbiamo fare perché la Carità continui a fare casa? Per fare delle nostre case/comunità/parrocchie/convivenze luoghi su misura dei più piccoli e fragili? Dove, cioè, siano loro ad ospitarci facendo il servizio di semplificarci la vita da tante nostre preoccupazioni e paturnie. Lasciamoci coinvolgere dalla domanda che nasce spontanea: “… che cosa dobbiamo fare?”.