Cattedrale

Gc 3,13-18

Gv 21,15-19

Desidero prima di tutto esprimervi la gioia per questo appuntamento con quanti appartengono a diverse aggregazioni laicali, espressione della varietà dell’azione dello Spirito Santo che continua a suscitare carismi e ministeri nella Chiesa. La Pentecoste non è una pura celebrazione liturgica, è azione permanente dello Spirito. A questo riguardo è doveroso riconoscere che la manifestazione dello Spirito non sta nella pluralità di carismi, ma nella loro convergenza, nella comunione che inevitabilmente è una tensione spirituale, cioè a sua volta opera dello stesso Spirito che è creativo, ma per l’edificazione del Corpo di Cristo.

E’ proprio questa la profezia: che l’anelito all’unità prevale su ogni affermazione delle singole identità. La pagina evangelica ci consegna dove sta la chiave di questa azione ‘spirituale’. Sappiamo bene che l’episodio evangelico segue un clamoroso fallimento di sequela da parte di Pietro. Non c’è spazio, per nessuno, per la presunzione di fedeltà. Pietro aveva ceduto alla paura, proprio lui che aveva esibito davanti a tutti il coraggio, in qualsiasi situazione si fosse trovato. Invece aveva patito lo scandalo di quel Gesù consegnato e in balìa. E così aveva ceduto anche lui. Come tutti gli altri.

Di fronte a questo esito Gesù sembra intenzionato a ricominciare: lo vediamo dal nome stesso con il quale chiama Pietro (“Simone, figlio di Giovanni”). Non più quello con cui lo aveva investito di un primato, cioè Pietro. E da dove ricomincia Gesù? Chiedendogli : ”Mi ami  più di costoro?”, per arrivare al più semplice e meno esigente :”Mi vuoi bene?”. Qualsiasi mandato di cura (“pasci…”) è preceduto, è condizionato da una richiesta di amore. Ma non presuntuosa. Il Signore, in questo nostro radunarci, ci riconduce alla verità di noi stessi, delle nostre realtà ecclesiali. Non si può coltivare in noi nessuna forma superba di considerarci migliori. La comprensione più adeguata è di saperci dei ricomincianti. Allo stesso tempo non possiamo rimanere inchiodati dalla sfiducia e dalla delusione, dai limiti/debolezze e dal peccato con cui facciamo i conti. Perché c’è da far nostra la fiducia che Lui continua ad avere. L’orgoglio ferito ci induce a ritenere che solo se siamo adeguati, cioè infallibili, il Signore ci affida qualcosa o qualcuno.

La pagina dell’apostolo Giacomo ci colloca ad intra e ad extra della nostra realtà ecclesiale. L’apostolo con estrema immediatezza ci mette di fronte a quei sentimenti che alimentano “disordine e ogni sorta di cattive azioni”. La gelosia, amara aggiunge, e lo spirito di contesa generano conflitti e inimicizia. Non vigiliamo a sufficienza sulle dinamiche interiori che ricadono sulle relazioni.

Siamo seriamente preoccupati – e stasera uno dei motivi che ci spinge a dare una voce unanime alla preghiera è proprio l’invocazione della pace – per tutti quegli scenari di guerra. Certamente chiediamo decisioni politiche-diplomatiche che favoriscano la conclusione di questi conflitti armati, ma la Parola di Dio ci mette all’erta nella necessità di bonificare la terra dei nostri pensieri, dei nostri cuori, delle nostre mani, da ogni ‘spirito di contesa’.

Abbiamo progressivamente trasformato le differenze in contese per avere il sopravvento, il dominio. Non accettando, in definitiva, la presenza, l’inevitabile coesistenza delle differenze. Anche l’atteggiamento opposto, quello di indifferenza che sembrerebbe immediatamente come innocuo, si può trasformare in una sottile eliminazione dell’altro.

Il nome della pace che vogliamo è l’affermazione della necessità dell’altro, per quale il sentimento della gelosia amara viene sostituito con il riconoscimento del suo essere dono. Di cui non posso farne a meno per garantire il dono che sono io. Che siamo gli uni gli altri. Da qui nasce la pace.