ROMA – 03.10.25
1Gv 4,16-21
“Auspico che questo Anno giubilare possa essere efficacemente un Anno di grazia a partire dalla verità che siamo chiamati a fare in noi e nelle nostre comunità”. (Lettera pastorale “Finché c’è speranza c’è vita”, n. 7). E’ il significato e il valore che vogliamo dare a questo primo atto comunitario del nostro pellegrinaggio. Fare verità in noi chiede di partire dall’Amore che Dio ha in noi e per noi. Ciò che mina la nostra speranza è proprio questa amnesia che ci fa essere concentrati su di noi. In balia di noi stessi. Invece tale sguardo ci permette di trovare fiducia: noi andiamo verso l’Amore. Nell’amore non c’è timore, perché questo “suppone un castigo”, l’amore scaccia il timore (cfr. 1Gv 4,18)
Il giudizio – che pur appartiene alla nostra esistenza – è posto sotto la potenza dell’Amore. Forse allontaniamo il pensiero perché lo associamo ad un esame. In realtà si tratta di un giudizio che ha come fine quello di salvarci. E’ questo l’approccio che siamo chiamati a fare nei confronti anche della nostra coscienza. Ciò che ci giudica è l’amore di Dio e questo giudizio non è per la condanna, ma è per la salvezza.
Se Dio ci ha amati per primo, questo ci mette nella condizione di amare. Che logica c’è in chi ti ama in debito? Se non che questo amore è il solo capace di convincerci della convenienza dell’Amore. Pensare il contrario è un inganno, è una bugia.
L’altra verità che il Signore fa sulla nostra vita è che Dio chiede di essere amato nel fratello.
Anche questa verità ha la forza di smascherare le nostre ambiguità, di mettere in luce le forme diverse di giustificazione. C’è sempre qualche ragione per assolverci. La prima, più diffusa, è quanto l’altro è meritevole. Questa forse è la grande resistenza che c’è in noi, dimentichi di un amore che ci ha preceduto e ci precede sempre. Allora ci è chiesto di fare verità anche sulle nostre intenzioni reali circa il desiderio di conversione all’Amore.
Oggi diamo un nome ai nostri sentimenti e alle azioni che ne derivano (cioè quanto essi ci dominano nelle relazioni), per fare la verità delle nostre azioni. Quanto cioè ci lasciamo dominare dai sentimenti di avversione che gli altri possono suscitare in noi. Possiamo e dobbiamo mettere queste nostre relazioni dentro la relazione costitutiva: quella con il Padre. Vi invito a mettere davanti a Lui e a portare nei vari momenti del pellegrinaggio quelle persone verso le quali non riusciamo a nutrire veri sentimenti di amore, di perdono, chi può suscitare un risentimento, un odio, una mancanza di benevolenza.
Ci potrà liberare da questo vincolo solo il lasciarci immergere e avvolgere dall’Amore che ci precede. Questo momento penitenziale è condizione rispetto alla grazia del giubileo. L’indulgenza – lo ricordiamo – interviene sulle conseguenze che il peccato lascia in noi, indebolendo lo stesso desiderio e la volontà di affidarsi, nella nostra vocazione, a seguire Gesù.
Pericolosa è ogni forma che anestetizza la fiducia al punto da non credere più. Forse dobbiamo domandarci, per chiedere una grazia particolare, quali sono le cose in cui ormai abbiamo finito di credere. Perché, e qui vorrei ricordare il titolo della Lettera pastorale, quando non c’è più speranza, non c’è più vita. Perché, se non c’è speranza abbiamo finito veramente di vivere.
Figli e figlie carissime, fissando il volto di Gesù Crocifisso ricordiamo il suo amore per ciascuno di noi e per tutti gli uomini. Egli conosce i segreti del nostro cuore e la volontà di seguirlo con più fervido impegno. Chiediamo il perdono dei nostri peccati facendo memoria di ciò che il Signore ha fatto per condurci alla vita nuova.




