I Vangeli dell’infanzia sono attraversati da fatti straordinari che ben presto si concludono lasciando i protagonisti per lo più stupidi e consegnati alla loro vita ordinaria: il racconto dell’annunciazione si conclude con le parole: “e l’angelo si allontanò da lei” (Lc 1,38); “Maria rimase con lei circa tre mesi, poi tornò a casa sua” (Lc 1,56); nella notte di Betlemme gli angeli si allontanano dai pastori (Lc 2,15); i Magi “per un’altra strada fecero ritorno al loro paese” (Mt 2,12); Gesù da Gerusalemme “scese con loro e venne a Nazaret” (Lc 2,51). Cosa dice a noi questa logica assunta da Dio nel manifestarsi nel mondo? Non sembra prediligere la straordinarietà degli eventi, non cerca cioè in questi fatti, che interrompono l’ordine delle cose, gli effetti speciali che meravigliano, che emozionano. Contengono una rivelazione importante ma immediatamente i protagonisti vengono ricondotti dentro i binari del quotidiano. Cosa significa questo per il Natale che stiamo celebrando a noi tutti concentrati sulla luce di Betlemme, sulla notte abitata da schiere celesti… cosa dice la straordinarietà del Natale e del modo con il quale lo abbiamo rivestito di sentimenti, di doni, di festa e di luci?
La domanda merita un’attenzione dal momento che siamo immersi in una cultura della ricerca – diremmo esasperata – dello straordinario: nella vita tendiamo ad affannarci nella corsa per uscire dalla routine, dall’ordinario delle cose, per cercare esperienze, emozioni forti che siano in grado di dare gusto, sapore, vita in forza di quello che sanno suscitare. La vita quotidiana, al contrario, viene percepita tout court come portatrice di stress. Forse senza rendercene conto il meccanismo del rifugiarsi in altri ‘luoghi’ extra-ordinari impoverisce e rende ancora più stressante la vita di ogni giorno con le sue relazioni e i suoi impegni. Quasi che ciò che è normale aspetti spasmodicamente ciò che ordinario non lo è.
Invece la stessa liturgia del Natale invita a scoprire la circolarità virtuosa tra la festa e la feria; tra Betlemme e Nazaret; tra l’evento celebrativo e la cura della bellezza dell’“ogni giorno”. Il giorno dopo giorno custodisce la vita che è illuminata e sostenuta da quell’inizio straordinario. Ma il valore dell’esistenza sta nelle pieghe dei momenti semplici e nella loro cura. Ci possiamo chiedere: cosa può significare per il nostro 7 gennaio ritornare a vivere il lavoro, la famiglia, le nostre responsabilità educative… aver celebrato il Dio che si compromette con la nostra storia, che è il Dio con noi? Se non che non c’è giorno che non sia abitato dallo straordinario? Come può trasformarsi il nostro quotidiano dopo aver riconosciuto il volto di Dio nel volto di un bambino come quello di tutti gli altri bambini che posso incrociare nella vita? Se non che c’è qualcosa di divino dentro i volti che incontriamo? Come si può modellare la fede in un Dio che ha parlato “molte volte e in diversi nodi nei tempi antichi …ai padri… ultimamente ha parlato a noi per mezzo del Figlio”? Se non riconoscendo la pericolosità di zittire Dio, rendendolo afono perché non gli lasciamo spazio per far risuonare la sua voce? Natale, paradossalmente, trova il suo valore nel momento in cui si conclude.
Natale è veramente l’esaltazione della nostra umanità e della storia che stiamo vivendo: possiamo entrare nell’amore di Dio, nella sua vita non fuori della nostra umanità, ma in essa, non fuori del nostro tempo, ma in quello che ci è dato, non in una comunità celeste, ma nella compagnia dei fratelli e sorelle che ci ha messo accanto… presi per mano pazientemente da un bambino, dal bambino di Betlemme che si affianca a noi ritmando il passo sui nostri passi, a volte stanchi altre volte spediti. In caso non ci lascia a terra, ci risolleva. È Lui la nostra speranza. Perché illumina con la sua luce e il suo amore i nostri momenti ordinari.
Buon Natale… buona Speranza.