Cattedrale – 16.04.23

At 2,42-47
1Pt 1,3-9
Gv 20,19-31

Da oltre 400 anni la città è stata affidata alla Vergine Maria, con il titolo di Madonna del popolo. Un’espressione che immediatamente evoca l’inclusione di tutti, in particolare di chi non aveva parte tra quanti potevano vantare un qualche riconoscimento onorifico, sociale e politico.

Oggi per noi dire ‘popolo’ significa andare all’immagine che il Vaticano II utilizza per descrivere la Chiesa: appunto come popolo di Dio.

All’interno del clima pasquale che stiamo vivendo, tale affidamento ci riconduce al Golgota sul quale, ci narra l’evangelista Giovanni, Gesù consegna Giovanni, e con lui ogni discepolo, alla Madre e lega la Madre al destino del discepolo. Oggi celebriamo in una forma ‘popolare’, per l’appunto, la Madre della Chiesa, che l’iconografia presenta nel gesto di allargare il suo mantello a protezione affinché ciascuno possa trovare ricovero, riparo. Maria ci protegge con il manto della sua singolare familiarità con il Signore, del quale diventa Madre.

Piace considerare che Maria ci protegga dal prevalere in noi delle resistenze al vangelo della Pasqua, aiutandoci a consegnarci fiduciosi al Figlio suo. Risorto.

In questa ottava di Pasqua la Chiesa ci invita a contemplare la misericordia del Signore. Anche la misericordia è un tratto femminile. Infatti il termine ebraico da cui deriva il termine misericordia, equivale alle viscere materne, all’utero e alla sua funzione di generare la vita. Nella donna si crea uno spazio accogliente nel quale prende vita qualcosa di nuovo, viene tessuto per poi essere dato alla luce. La misericordia è l’amore capace di aprire a qualcosa di nuovo, ad una vera e propria generazione. La misericordia allora ha a che fare con il passato, ma nel senso che lo apre a qualcosa di imprevedibile. L’amore misericordioso di Dio ha la forza di dare futuro anche alle situazioni più compromesse.

La scena evangelica che abbiamo appena ascoltato è una rappresentazione di tale misericordia. Il passato prossimo dei discepoli è portatore di tutte le caratteristiche della morte: il venerdì di passione ha lasciato una scia di paure. Il segno più eloquente è il luogo dove si sono asserragliati (è un altro sepolcro); così la paura che paralizza (verso i giudei, verso il mondo da cui provengono… verso Dio?); la stessa dispersione (non ci sono tutti) è l’esito di come sono andate le cose in quel terribile venerdì.

Gesù non bussa, entra ‘a porte chiuse’: il Risorto è capace di irrompere, di penetrare la corazza che sta nel loro cuore. Il Risorto irrompe nelle loro paure. Si mostra più forte di qualsiasi nostra difesa. E, fatto questo, ci è detto che “stette in mezzo a loro”. Non al centro ma “in mezzo”, cioè tra loro e tra l’uno e l’altro.

Lo stare dice poi che non è un passare veloce, bensì il porre di nuovo la sua tenda/dimora. In mezzo. “Io ci sono e resto”. “Puoi far conto su di me”. Oggi siamo invitati a verificare la qualità della nostra fede: al centro c’è il crocifisso risorto? È questa certezza che trasforma la vita in un dono, grazie allo Spirito Santo. È solo così che le porte chiuse vengono abbattute. Le corazze, di cui ci rivestiamo, abbandonate.

Gesù sta in mezzo a noi con i segni della sua passione per noi. Ogni agire (le mani), ogni andare (i piedi), ogni atto di amore (costato) mette in conto possibili ferite, non sono mai indolori. È sempre un morire. Ma solo così la paura, che isola, può essere sconfitta. E l’amore resta con la sua storia, con le sue ferite. È l’amore appassionato. L’amore patito.

La comunità (di allora come quella odierna) è segnata dalle fragilità. Abbiamo davanti una fotografia impietosa della comunità apostolica: c’è nell’aria il tradimento di Giuda, il rinnegamento di Pietro, c’è l’assenza di Tommaso… come pure la loro diffusa incredulità verso tanti testimoni. Noi stessi siamo presi dalla paura anche delle nostre fragilità e debolezze. Non siamo più affidabili di altri, di chi ci ha preceduto.

Siamo presi anche noi nell’incredulità che nasce di fronte a tanto amore: ma è proprio possibile che si dia un amore così esagerato? Per certi versi sarebbe più facile capire un Dio che punisce. Con giustizia. E invece…non passa a rimproverarli uno ad uno. Quanto è difficile misurarsi con questo amore!

Ogni otto giorni si rinnova questa presenza amorevole del Signore risorto, che continua a venire, per incontrarci e testimoniarci tale amore. E noi abbiamo trasformato questo appuntamento settimanale (la celebrazione dell’Eucaristia) in un dovere, lo abbiamo ridotto ad un precetto o, quando va bene, in una celebrazione di noi stessi e delle nostre cose. Un altro modo per chiuderci in noi stessi. Pensiamoci: non è che ci stiamo indebolendo perché stiamo perdendo il valore e la forza della gioiosa abitudine di sperimentare tanto amore? È l’appuntamento che il Signore ci dà, di radicarci nel suo amore. Perché noi tendiamo di continuo a ri-corazzarci, a ri-cadere nella paura, a re-introdurre tra noi sguardi di paura e di sospetto.

Non possiamo rimanere impassibili e indifferenti se non riusciamo a trasmettere la bellezza della vita ai nostri bambini e ragazzi. Se, addirittura, cresce in loro la paura di vivere, più forte della paura di morire. Siamo proprio disposti ad accettare che per paura di soffrire ci si renda refrattari al dolore e al dramma di chi ci è vicino? Addirittura di un amico e di un coetaneo?

Che Maria ci copra con il suo manto di sorella e di madre della fede e ci protegga. Affidiamo a Lei la nostra città con le sue comunità cristiane, perché esse possano essere il segno dello stare in mezzo a noi del Risorto con Amore appassionato. Vincitore di ogni paura e di ogni indifferenza.

MADONNA DEL POPOLO

Cattedrale – 16.04.23

At 2,42-47

1Pt 1,3-9

Gv 20,19-31

Da oltre 400 anni la città è stata affidata alla Vergine Maria, con il titolo di Madonna del popolo. Un’espressione che immediatamente evoca l’inclusione di tutti, in particolare di chi non aveva parte tra quanti potevano vantare un qualche riconoscimento onorifico, sociale e politico.

Oggi per noi dire ‘popolo’ significa andare all’immagine che il Vaticano II utilizza per descrivere la Chiesa: appunto come popolo di Dio.

All’interno del clima pasquale che stiamo vivendo, tale affidamento ci riconduce al Golgota sul quale, ci narra l’evangelista Giovanni, Gesù consegna Giovanni, e con lui ogni discepolo, alla Madre e lega la Madre al destino del discepolo. Oggi celebriamo in una forma ‘popolare’, per l’appunto, la Madre della Chiesa, che l’iconografia presenta nel gesto di allargare il suo mantello a protezione affinché ciascuno possa trovare ricovero, riparo. Maria ci protegge con il manto della sua singolare familiarità con il Signore, del quale diventa Madre.

Piace considerare che Maria ci protegga dal prevalere in noi delle resistenze al vangelo della Pasqua, aiutandoci a consegnarci fiduciosi al Figlio suo. Risorto.

In questa ottava di Pasqua la Chiesa ci invita a contemplare la misericordia del Signore. Anche la misericordia è un tratto femminile. Infatti il termine ebraico da cui deriva il termine misericordia, equivale alle viscere materne, all’utero e alla sua funzione di generare la vita. Nella donna si crea uno spazio accogliente nel quale prende vita qualcosa di nuovo, viene tessuto per poi essere dato alla luce. La misericordia è l’amore capace di aprire a qualcosa di nuovo, ad una vera e propria generazione. La misericordia allora ha a che fare con il passato, ma nel senso che lo apre a qualcosa di imprevedibile. L’amore misericordioso di Dio ha la forza di dare futuro anche alle situazioni più compromesse.

La scena evangelica che abbiamo appena ascoltato è una rappresentazione di tale misericordia. Il passato prossimo dei discepoli è portatore di tutte le caratteristiche della morte: il venerdì di passione ha lasciato una scia di paure. Il segno più eloquente è il luogo dove si sono asserragliati (è un altro sepolcro); così la paura che paralizza (verso i giudei, verso il mondo da cui provengono… verso Dio?); la stessa dispersione (non ci sono tutti) è l’esito di come sono andate le cose in quel terribile venerdì.

Gesù non bussa, entra ‘a porte chiuse’: il Risorto è capace di irrompere, di penetrare la corazza che sta nel loro cuore. Il Risorto irrompe nelle loro paure. Si mostra più forte di qualsiasi nostra difesa. E, fatto questo, ci è detto che “stette in mezzo a loro”. Non al centro ma “in mezzo”, cioè tra loro e tra l’uno e l’altro.

Lo stare dice poi che non è un passare veloce, bensì il porre di nuovo la sua tenda/dimora. In mezzo. “Io ci sono e resto”. “Puoi far conto su di me”. Oggi siamo invitati a verificare la qualità della nostra fede: al centro c’è il crocifisso risorto? È questa certezza che trasforma la vita in un dono, grazie allo Spirito Santo. È solo così che le porte chiuse vengono abbattute. Le corazze, di cui ci rivestiamo, abbandonate.

Gesù sta in mezzo a noi con i segni della sua passione per noi. Ogni agire (le mani), ogni andare (i piedi), ogni atto di amore (costato) mette in conto possibili ferite, non sono mai indolori. È sempre un morire. Ma solo così la paura, che isola, può essere sconfitta. E l’amore resta con la sua storia, con le sue ferite. È l’amore appassionato. L’amore patito.

La comunità (di allora come quella odierna) è segnata dalle fragilità. Abbiamo davanti una fotografia impietosa della comunità apostolica: c’è nell’aria il tradimento di Giuda, il rinnegamento di Pietro, c’è l’assenza di Tommaso… come pure la loro diffusa incredulità verso tanti testimoni. Noi stessi siamo presi dalla paura anche delle nostre fragilità e debolezze. Non siamo più affidabili di altri, di chi ci ha preceduto.

Siamo presi anche noi nell’incredulità che nasce di fronte a tanto amore: ma è proprio possibile che si dia un amore così esagerato? Per certi versi sarebbe più facile capire un Dio che punisce. Con giustizia. E invece…non passa a rimproverarli uno ad uno. Quanto è difficile misurarsi con questo amore!

Ogni otto giorni si rinnova questa presenza amorevole del Signore risorto, che continua a venire, per incontrarci e testimoniarci tale amore. E noi abbiamo trasformato questo appuntamento settimanale (la celebrazione dell’Eucaristia) in un dovere, lo abbiamo ridotto ad un precetto o, quando va bene, in una celebrazione di noi stessi e delle nostre cose. Un altro modo per chiuderci in noi stessi. Pensiamoci: non è che ci stiamo indebolendo perché stiamo perdendo il valore e la forza della gioiosa abitudine di sperimentare tanto amore? È l’appuntamento che il Signore ci dà, di radicarci nel suo amore. Perché noi tendiamo di continuo a ri-corazzarci, a ri-cadere nella paura, a re-introdurre tra noi sguardi di paura e di sospetto.

Non possiamo rimanere impassibili e indifferenti se non riusciamo a trasmettere la bellezza della vita ai nostri bambini e ragazzi. Se, addirittura, cresce in loro la paura di vivere, più forte della paura di morire. Siamo proprio disposti ad accettare che per paura di soffrire ci si renda refrattari al dolore e al dramma di chi ci è vicino? Addirittura di un amico e di un coetaneo?

Che Maria ci copra con il suo manto di sorella e di madre della fede e ci protegga. Affidiamo a Lei la nostra città con le sue comunità cristiane, perché esse possano essere il segno dello stare in mezzo a noi del Risorto con Amore appassionato. Vincitore di ogni paura e di ogni indifferenza.