Is 61,1-3a.6a.8b-9

Ap 1,5-8

Lc 4,16-21

La presenza così numerosa di presbiteri e diaconi connota questa celebrazione come il momento di comunione nel Signore del presbiterio. Lasciatemi dire, un momento di intimità spirituale. Di cui abbiamo bisogno. La messa crismale che si articola attorno alla benedizione degli oli e il rinnovo delle promesse sacerdotali è una specie di porta d’ingresso al Triduo pasquale. La vita sacramentale è il frutto e il segno permanente, nella vita personale ed ecclesiale, di ciò che andiamo a vivere nei prossimi giorni. Se i sacramenti celebrati e l’esistenza dei ministri ordinati non parlano di Pasqua, non srotolano il mistero dell’esistenza pasquale di Gesù sono destinati all’insignificanza.

Cari fratelli presbiteri e diaconi, a questo siamo stati riservati: “a portare il lieto annuncio ai miseri, a fasciare le piaghe dei cuori spezzati, a proclamare la libertà agli schiavi, la scarcerazione dei prigionieri, a promulgare l’anno di grazia del Signore (…)”. La nostra persona, il nostro agire, il nostro sguardo è consacrato per questa missione pasquale. Di annunciare l’irrompere di Dio che apre futuri spesso insperati. Solo così la cenere è sostituita da una corona, l’abito di lutto con l’olio di letizia, lo spirito mesto con una veste di lode.

È la liturgia della Parola che abbiamo appena ascoltato ad essere attraversata da questa nota di gioia e di lode, e dalla missione che ne deriva: “sarete chiamati sacerdoti del Signore, ministri del nostro Dio”. Dovremmo ogni tanto chiederci di quale Dio siamo sacerdoti, di quale Dio siamo ministri. Non trascuriamo che è in forza dello Spirito che noi lo possiamo diventare. È grazie alla sua opera che anche in noi l’abito di mestizia e di lutto può essere smesso, per rivestirci di speranza. Alla domanda di rito: “come va?” cosa ci viene spontaneo rispondere? Siamo propensi a fare l’elenco (infinito) delle lamentazioni e delle frustrazioni o a condividere i (forse pochi) semi di speranza che intravvediamo? Siamo ministri del dio indaffarato nella gestione delle strutture o sacerdoti del Dio che si prende cura di ogni persona nella sua bellezza e nelle sue fatiche? Di Colui che cerca di aprire strade nuove nel deserto, che abbatte i colli e colma gli avvallamenti? Siamo a contare le gocce di sudore sparso o le lacrime di gioia per incontri e cammini inattesi?

Credo sia bene riandare da dove siamo partiti all’inizio del nostro itinerario quaresimale. Il mercoledì delle ceneri S. Paolo ci ha raccomandato con forza: “lasciatevi riconciliare con Dio”, collocandoci tra coloro che di questo annuncio sono ‘ambasciatori’, in nome e per conto di Cristo, e ‘suoi collaboratori’. Siamo portatori cioè della notizia che Dio ci cerca per ricreare ciò che è stato compromesso, per ricomporre ciò che si è rotto, per ripristinare legami sfilacciati. Ma se è necessario lasciarsi riconciliare vuol dire che noi tendiamo a porre resistenze, opposizioni a questo desiderio di Dio. Questo invito vale per tutti, nessuno escluso. Anche per noi. Fin dall’inizio la fatica maggiore di Dio è di persuaderci del suo Amore e della sua buona intenzione nei nostri confronti.

L’anno giubilare, scandito dal Vangelo secondo Luca, il vangelo del volto della misericordia di Gesù, ci introduce in questo ministero. Registriamo da diverse parti la tendenza a creare distanze e facciamo i conti con le conseguenze che ogni distanza sta producendo. Viviamo, nell’orizzonte della parabola del padre misericordioso, fuori casa, illusi che solo riscattandoci da essa ci sia vita piena. Preferiamo una vita senza legami seri, senza un Padre e senza padri. Con la sensazione diffusa di incertezza e di solitudine, con una conseguente difficoltà a fondare la nostra identità, a radicarci, s-vincolati da legami e da responsabilità, privi di un compito che orienti le nostre energie e le nostre esistenze. Oggi più che mai Dio ci cerca per ripristinare legami filiali e cerca anche per mezzo nostro.

La tendenza a creare distanza ha molte conseguenze e sono diversi i segnali. Assistiamo, ad es., all’abbandono da parte di molti battezzati della vita sacramentale, in particolare del sacramento della riconciliazione. Stiamo proponendo anche forme celebrative diverse, ma la sensazione è che non se ne avverta la necessità e la bellezza. Si preferisce l’ebbrezza dell’autoreferenzialità, morale, esistenziale, relazionale…della fede su misura. Una questione seria e tutt’altro che semplice da affrontare. Ma è la nostra sfida più grande.

Una domanda che rivolgo a me stesso, non vuol essere in nessun modo un giudizio, è se una delle cause della nostra fatica ad annunciare la necessità e la libertà dei legami, con il Dio di Gesù Cristo e con la comunità, non si possa ricondurre a come noi stiamo dentro a tale contesto culturale, in questa percezione diffusa. Siamo chiamati noi per primi ad essere evangelizzati, ce l’ha ricordato San Paolo, perché non possiamo presumere di non esserne coinvolti. Viviamo, nella concretezza del nostro essere credenti e preti, il gusto dei legami da custodire? Avvertiamo la necessità di vivere da riconciliati? Lasciandoci riconciliare con Dio, con i fratelli e i confratelli? Se non patiamo nella nostra carne la strada della riconciliazione con Dio e con i fratelli, probabilmente non riusciremo a indicare percorsi plausibili anche ai nostri fratelli e sorelle.

La figura di Pietro, come la incroceremo stasera nel racconto della lavanda dei piedi, ci può ben descrivere: “Tu non mi laverai i piedi in eterno”: Pietro presume di non aver bisogno di quel gesto e dell’amore che vi era raccolto. E Gesù in risposta gli rivela: “Se non ti laverò, non avrai parte con me”. A dire che l’essere parte di Gesù e del suo amore esige il riconoscimento di essere parte dell’umanità e della chiesa per le quali l’Amore di Gesù è dato.

Signore, donaci la grazia di gioire nell’essere riconciliati, per essere testimoni di quella speranza che ci salva solo quando è vittoria sul bastare a noi stessi; solo quando è sconfitta l’illusione che sia possibile vivere selezionando la qualità e la quantità dei nostri legami.