SEMINARIO VESCOVILE

Oggi, dopo una pausa di due anni, ci ritroviamo per celebrare la Solennità del Sacro Cuore nella modalità tradizionale. Oltre a questo spazio di riflessione e confronto vivremo il momento conviviale: entrambi ci ricordano che la nostra fraternità sacerdotale vive e si alimenta oltre che del momento liturgico sacramentale anche della condivisione di una progettualità, insieme alla gratuità dello stare assieme. Evitiamo di trascurare qualcuna di queste forme da custodire e da cercare, perché tutte ci sono necessarie e preziose per mantenere viva la fraternità.

Nell’omelia della Messa crismale avevo sottolineato che dalle prime sintesi dell’ascolto sinodale era emersa una carica di fiducia in questo tempo travagliato. In quella occasione mi chiedevo: e se la consolazione, rispetto alle nostre fatiche (reali), ci raggiungesse attraverso i nostri fratelli e sorelle che ci sono affidati? Questa domanda mi è rimasta dentro, soprattutto nella lettura della sintesi che la nostra diocesi ha inviato a Roma.

Un testo che vorrei ripercorrere con voi alla luce della nostra identità e del nostro ministero. Semplificando al massimo potremmo leggere quanto emerso con due atteggiamenti opposti: uno depressivo e aggressivo insieme, che nasce dalla sensazione di essere oggetto di una sorta di j’accuse, di essere davanti ad un elenco di osservazioni critiche verso la Chiesa, identificata con i sacerdoti. Questo potrebbe indurre ad una reazione di rifiuto e alimentare un sentimento di rancore (è la moneta con la quale siamo pagati!). Tale reazione porterebbe a chiudere la questione accentuando la distanza tra noi e i laici, all’interno di reciproche rivendicazioni e accuse. Oltre tutto, in questo modo si produrrebbe un affossamento del Cammino sinodale stesso, archiviandolo come “la solita cosa” che non serve a niente.

Non siamo ingenui e conosciamo quanto sia facile e frequente il lamento per le cose che non funzionano e che spingono all’elenco delle richieste, spesso impossibili, che (ci) vengono rivolte. A volte bisogna fare la tara sulle osservazioni che vengono rivolte alla ‘chiesa’ (per lo più intesa come sacerdoti e vescovo). Ma dobbiamo allontanare la tentazione di chiuderci pregiudizialmente rispetto a ciò che ci viene detto.

Ma c’è un altro atteggiamento possibile di fronte a questa sintesi e che vorrei proporre in questo mio intervento. Esso nasce all’interno della fiducia che ci anima: nell’ascolto che ci siamo reciprocamente offerti, il Signore ci sta indicando delle prospettive di cammino, di conversione, di promesse che sono in grado di rimotivarci e che ci permettono di trovare senso e gusto al nostro agire pastorale. La consolazione in questo senso non sarebbe una ‘tranquillizzante pacca sulle spalle’ ma un’indicazione che ci può aiutare a riprendere il cammino. Un cammino condiviso, partecipato da fatiche e da affaticamenti, ma anche di percorsi che ci incoraggino a guardare avanti.

A questo riguardo ricordo la seconda forma di obbedienza che l’anno scorso avevo messo in luce in questa occasione: vale a dire l’obbedienza al cammino della Chiesa, che crediamo essere condotta dallo Spirito santo. È utile richiamare l’insistenza che troviamo nell’Apocalisse all’interno delle lettere alle sette Chiese: “Chi ha orecchi, ascolti ciò che lo Spirito dice alle Chiese” (Ap 2,7.11.17.29; 3,6.13.22). Notiamo che le Chiese sono invitate a prestare ascolto a una Parola che risulta essere dura. Non è difficile immaginare che queste lettere toccassero nervi scoperti e mettessero in luce le tensioni presenti. Eppure sono lettere che proprio nella verità aprono ad una salvezza. Un giudizio severo sul presente è in grado di aprire un futuro perché colto come Parola pronunciata dallo Spirito del Signore.

Prima di entrare nel merito della lettura della sintesi, ci chiediamo se quest’anno siamo riusciti ad ascoltare più in profondità le persone che si sono coinvolte negli ascolti sinodali. Ho gustato e in che modo la fecondità dell’ascolto? Posso confermare di aver visto nel volto dei miei parrocchiani la soddisfazione rispetto a questa esperienza? E se per caso questo non fosse avvenuto, quali ragioni mi hanno chiuso all’ascolto proposto? Ho intuito che per superare il consueto racconto delle singole opinioni è indispensabile usare un metodo?  Credo nella sua efficacia?

Non solo: io mi sono sentito ascoltato? Si è parlato del debito di ascolto verso… sono anch’io tra chi avverte di essere in credito di ascolto? Da parte di chi? Sono disposto a comunicare ciò che vivo in una relazione alla pari?

Confesso che mi è dispiaciuto che alcune iniziative proposte dalla formazione permanente del clero non abbiano avuto una buona adesione: sono state delle opportunità per crescere in condivisione e ascolto reciproco.

GLI APPELLI EMERSI DENTRO AGLI ASCOLTI

  1. Come accennato in apertura, nelle sintesi che sono giunte c’è stima e ci sono attese nei nostri confronti. Magari non c’è la consapevolezza che le richieste sono più radicali di semplici aggiustamenti. Dovremmo aiutarci a comprendere che nell’insieme è in gioco una nuova immagine di Chiesa e di ministero. In questo senso non credo ci sia la piena percezione che in gioco non siamo (solo) noi presbiteri… ma tutta la realtà ecclesiale. Siamo ancora (molto) debitori di una visione di Chiesa centrata sul sacerdote, prova ne sia che le attese nei suoi confronti spesso rischiano di essere sproporzionate. Cosa vuol dire? Che vanno accantonate? O piuttosto che gli appelli vanno presi sul serio perché invocano una corresponsabilità e partecipazione che va perseguita. Se una delle metafore è stata quella del coro, per noi essa chiede di passare dall’assolo alla direzione. E per questo da una gestione personalistica ad una partecipazione comunitaria, presbiterale, diocesana. Noi abbiamo una risorsa, per molti versi, sottoutilizzata, che è il presbiterio. E tuttavia, è già emerso in qualche incontro, è importante creare momenti di formazione condivisa tra sacerdoti e laici perché maturino delle prospettive di cammino condiviso (compreso ciò che di seguito vorrei suggerire).
  • Un passaggio del genere richiede progressività e perciò pazienza. Pazienza per noi, che siamo cresciuti e vissuti dentro un altro orizzonte, ma non da meno anche verso le nostre comunità. Non possiamo pretendere che le comunità e i nostri collaboratori siano come li vogliamo noi, né perfetti (a proposito: chi di noi lo è?).

Dire che c’è davanti un cammino non significa che siamo all’anno zero. Ci sono delle attenzioni in atto, qualcosa che in modi diversi le comunità stanno metabolizzando (ad es. l’accostare e/o accogliere i lontani: è ben presente e in atto se solo pensiamo a tanti genitori dei ragazzi dell’iniziazione cristiana. Hanno tutte le caratteristiche dei cosiddetti ‘ lontani’. Oppure a coloro che vengono a celebrare i sacramenti, come il matrimonio o il battesimo dei figli). Il primo incontro fatto un mese fa con gli animatori dei corsi di preparazione al matrimonio è stato interessante per mettersi in sintonia verso questi giovani-adulti che chiedono di celebrare il matrimonio. Un altro capitolo da mettere a tema in vista di scelte da fare potrebbe essere la  preparazione al battesimo dei figli…

Nella sintesi emerge chiara la richiesta di relazioni belle, calde, significative. Ancora una volta: da soli, tutto sulle nostre spalle? Le relazioni hanno in sé l’esigenza di essere sostenute nel tempo. Ogni volta che più o meno consapevolmente siamo giocati dalla fretta, dalla volontà di concentrare in poco tempo le cose che dobbiamo annunciare, verificare, preparare… rischiamo di ingolfare un rapporto più che far intravvedere la bellezza di ritrovarsi, di iniziare a camminare insieme.

Mi verrebbe da dire che la via della relazione (così auspicata) può aiutarci a dilatare i tempi e a uscire dalla logica dell’efficienza che spesso ci condiziona. Su questo credo che potremmo andare alla scuola delle coppie che in maniera più realistica conoscono i tempi della relazione. Un tema che ritorna nella sintesi è il tempo, i tempi di vita, certamente, ma anche il tempo dilatato. Si dice che è un’esigenza per gli adulti. Ma noi non siamo nella stessa condizione? È una questione seria, che rischia però di diventare un meccanismo perverso, che alla fine può mascherare una fatica reale di relazionarci. Meno ci esercitiamo, più siamo in difficoltà e allora cerchiamo (a mo’ di alibi) di essere di corsa… Basterebbe solo chiederci quante delle cose che in una giornata facciamo sono proprio così necessarie. Detto diversamente: perché ho corso tutto il giorno? Perché non sono stato in grado di dire dei no?

Questo lo chiedo a me stesso: mi guida veramente nell’organizzazione delle giornate e degli impegni l’essenziale del mio ministero?

  • C’è un’attesa verso il sacerdote che sia “guida carismatica”, che non si deve intendere con il ‘carisma’ del leader travolgente. Il carisma del pastore è quello della sintesi. Si tratta cioè di maturare la capacità di promuovere i carismi, le qualità… a servizio di un cammino di comunione. La valutazione positiva di un pastore va misurata nella sua capacità di valorizzare, passando lui in secondo piano. Non si tratta solo di dinamiche personali, ma anche della gestione degli organismi partecipativi. Decisivo sarà in questo momento il Consiglio di Comunità pastorale e la Koinonia, nei quali fare a piccoli passi un cammino di scelte e di avvio di processi. Chi presiede ha il compito di individuare i punti da cui partire, le risorse che sono presenti e di metterle insieme.

Si comprende che in gioco ci sono i processi decisionali, quello che stiamo chiamando discernimento comunitario.

  • Abbiamo constatato la forza del patrimonio di cui disponiamo (Messa, Parola di Dio…momenti celebrativi, parrocchia), e, insieme, la necessità di garantire la cura di questo patrimonio che ci è richiesta; allo stesso modo c’è un forte appello all’importanza del linguaggio, e penso alla cura della comunicazione. In questo aspetto sicuramente c’è una formazione ‘tecnica’ delle regole della comunicazione, ma primaria è la cura della qualità spirituale della nostra vita. La prima cura che dobbiamo mettere in atto è proprio verso la nostra vita di fede, il tempo che dedichiamo alla preghiera, all’ascolto della Parola di Dio. Ritengo che si tratti della condizione previa rispetto alla qualità del nostro servizio di presidenza.

Vorrei avviare con voi anche l’urgenza di operare delle scelte rispetto alle nostre celebrazioni (in particolare eucaristiche). Se ci viene detto che la celebrazione alimenta la vita spirituale delle persone, non possiamo continuare a celebrare messe correndo (in particolare in montagna) da una parte all’altra. Lo sappiamo bene che toccare queste cose significa scatenare proteste e rivendicazioni… ma possiamo ora appellarci alla coerenza con quanto è stato affermato, avviando a livello diocesano percorsi per giungere a scelte condivise.

Se la metafora della potatura può aiutarci a comprendere il momento che stiamo vivendo, allora essa non può che essere necessaria per dare frutto. Prima che pensarla per gli altri o per l’organizzazione pastorale, ognuno la pensi per sé. Al termine semplificare, preferisco il verbo essenzializzare: operazione che deve essere fatta insieme, in un processo di recupero di ciò che è da ritenere essenziale per un battezzato, per una comunità, per un sacerdote-discepolo.

A Maria, Madre del buon consiglio, affidiamo ciò che stiamo accogliendo dentro all’ascolto provvidenziale che la Chiesa ci ha invitato a fare. Non dimentichiamo che la fede e la vocazione sono risposte ad una parola che ci viene rivolta e dentro alla quale c’è una grazia che garantisce il compimento delle promesse che il Signore continua a rinnovare nella vita nostra e della Chiesa…