Mi 2,1-5
Mt 12,14-21

La citazione del canto del servo di Jahvè che la pagina evangelica ha fatto risuonare invita a guardare alla vita di don Giuseppe alla luce di questo compimento: perché si compisse ciò che era stato detto per mezzo del profeta Isaia: ”Ecco il mio servo…”. E’ a Gesù che si fa riferimento, ma possiamo dire che questa pagina del servo vale per don Giuseppe e per ognuno di noi, perché tutti siamo stati inseriti nella vita di Gesù, Servo. La sua esistenza è stata un progressivo compiersi della sua identità di servo chiamato dentro la logica dell’amore. Una vocazione religiosa adulta, la sua, se il criterio è quello dell’età, una elezione quella del Signore che si è manifestata con forza dentro ad una vita professionale ormai consolidata. Una vocazione a lasciare tutto in forza del primato di Dio e del suo amore che ha raggiunto Giuseppe attraverso la radicalità di Francesco d’Assisi.

E’  stato il francescanesimo ad invitarlo a consegnare la propria vita spogliandola di quelle sicurezze che aveva acquisito, in una vita realizzata, umanamente parlando. Ma anche questo approdo non sarà quello definitivo. Giunge ad Assisi quando l’Umbria è colpita dal tragico sisma. E sembra provvidenziale il suo arrivo, per venire incontro a  tutte le necessità della fase del post terremoto. Protagonista stimato di vari interventi di recupero architettonico, di chiese e convento, viene molto valorizzato per la sua competenza. Ma don Giuseppe, coerentemente con quanto aveva vissuto lasciando Piacenza, avverte l’esigenza di tornare ad una vita orientata al servizio al vangelo.   

Così si impone il desiderio di un servizio più semplice con  la chiamata a spendersi nel servizio pastorale nella comunità diocesana. E’ il motivo del ritorno a Piacenza, dove trasferisce la passione pastorale, espressa con sguardo intelligente ed insieme determinato. Il servizio alla comunità dell’Alta Valtidone lo vedrà dedito nella continua ricerca di valorizzare ciò che può essere ‘incrinato o smorto’, convinto che il compito del servo è di aprire alla speranza tutti e ciascuno.

Infine, sempre nella linea del Servo di Javhè , è giunta la stagione della prova. Della malattia affrontata con fede provata. Anche in questo caso si è manifestata la sua umanità che si misurava con la piena consapevolezza di ciò che l’attendeva. Mai rinunciatario, sempre pronto a riprendere il suo servizio appena un filo di forza glielo permetteva. Quando con lucidità descriveva il suo stato di salute, non era mai secondaria la prospettiva del senso di ciò che stava vivendo, nello spirito dell’offerta. Sicuramente è stato supportato oltre che dai famigliari, anche dalla sua comunità e, va detto, da don Jean Marc con il quale si è instaurato un rapporto di premurosa presenza affettuosa. Direi un’esemplare testimonianza di fraternità.

Possiamo dire che don Giuseppe è stato un testimone di speranza sia nel ministero che nella sua esistenza. Fino alla fine, quando non ha trattenuto niente per sé, esperimentando in modo efficace la verità del mistero eucaristico che ha celebrato con verità. Ha potuto unirsi a Cristo ripetendo anche per sé le parole dell’ultima cena: ”prendete e mangiatebevetequesto è il mio corpo-sangue dato, versato per noi. Per tutti”. Il suo ultimo ministero di pastore lo ha esercitato sull’altare della malattia.  Possiamo ben dire che è stato un memoriale del servo di Jahvé, posto come alleanza per il mondo.

Il Padre accolga questo nostro fratello che possiamo testimoniare, prendo a prestito le parole di mons. Viola, Segretario del Dicastero del Culto Divino: “Una bella persona, un buon frate e un buon sacerdote”.

Caminata – 20.07.24