Cattedrale

Es 23, 20-23a

Mt 18,1-5.10

Un’esistenza presbiterale, come quella di d. Romano che si sta concludendo tra noi, è segnata dalla Parola di Dio. Una Parola che raggiunge per chiamare, non solo all’inizio del cammino vocazionale, ma di continuo, in una familiarità di ascolto quotidiano. La Parola che suscita una risposta, un “eccomi!”. La Parola segna il servizio nella comunità, nell’annuncio affidato al ministro ordinato. La Parola che è luce. È un’immagine efficace quella della luce associata alla Parola, lo è anche nel momento della nostra morte, anzi particolarmente in questa esperienza, comunemente associata al buio, all’oscurità. Allora ci lasciamo condurre dalla Parola che è risuonata tra noi in questa memoria degli Angeli custodi.

Chi dunque è il più grande nel regno dei cieli?”. Domanda in bocca ai discepoli e che risuona dentro la comunità dei discepoli (essendo l’episodio ascoltato, nel vangelo secondo Matteo, all’inizio del discorso comunitario). Una domanda che sembra impossibile scrollarci di dosso, noi che continuiamo a rimanere invischiati nella logica del comparativo. Anche nella Comunità si cerca più o meno esplicitamente chi sia il più grande. In realtà perché ognuno è preoccupato di ritagliarsi un posto. Notiamo che la domanda non riguarda tanto chi è ‘grande’, cioè chi è da considerare di valore, ma il ‘più grande’.

Come spesso fa Gesù nella risposta contesta la domanda, invitando a convertire il cuore che vuole definire ordini di grandezza che non corrispondono alla logica che Lui è venuto a inaugurare. Capovolge il criterio di valutazione. Il più grande è indicato in chi si fa come un bambino. A dire: la grandezza non te la dai tu con le tue azioni meritorie, neppure ti è riconosciuta dagli altri per le qualità che sai esprimere, ma si manifesta nel momento in cui ti apri all’invocazione, dichiari di non bastare a te stesso e di aver bisogno. Nel momento in cui ti fidi e ti affidi. La grandezza ce la dà la cura degli altri e quella che ciascuno può assicurare a chi è in quella condizione. La grandezza, in definitiva, è aprirsi all’Amore di Dio.

Allora, pensando a d. Romano, verrebbe da sottolineare le sue passioni, la sua dedizione, i tanti anni di ministero… ed invece, secondo il criterio introdotto da Gesù, siamo portati a guardare alla ‘grandezza’ dell’ultima stagione della sua vita. Del tempo della malattia, dei ricoveri… è questo l’annuncio che ci deve sempre sorprendere: la nostra grandezza sta nello stare di fronte al volto del Padre, oggetto del suo amore. E ora questo Amore si compirà nella sua forma più alta, più piena.

La pagina dell’Esodo dice di Jahvé che, al suo popolo in cammino nel deserto, in quel lungo cammino verso la promessa (che altro non è che la vita), assicura un angelo: ‘davanti a te’. Noi l’angelo custode l’abbiamo per lo più rappresentato alle spalle, ma il Signore ci rassicura che l’angelo ci precede, per rendere il luogo dove si va un luogo accogliente, familiare. Rende l’approdo una casa. L’angelo ci è donato come Colui che ci apre strade, che combatte e sgombra il cammino e rende percorribili le strade impervie. Vorrei immaginare ora questo angelo che precede l’ultimo tratto di strada di d. Romano, che apre l’incontro con la misericordia di Dio. È significativo che nell’ultima fase della sua vita abbia concentrato il suo servizio nell’annuncio del perdono.

Proprio il ministero della riconciliazione, a cui d. Romano è stato fedele fino alla fine, ci conferma quanto per lui fosse certa la fiducia nel perdono, segno della misericordia del Padre, capace di aprire cammini di vita nuova, capace di aprire cammini di vita eterna, cioè di vita di Dio in noi.

Con la ferma fiducia in questo Amore consegniamo l’esistenza tutta di questo nostro fratello presbitero nell’abbraccio del Padre, perché in esso faccia sentire a d. Romano quanto sia grande nel Regno dei cieli.