S. Stefano d’Aveto
Lv 25,1.8-17
Mt 14,1-12
L’esistenza di una persona, di un battezzato e di un sacerdote, è sicuramente un ‘mistero’, nel senso profondo del termine. Vale a dire che si tratta di una realtà che viene alla luce un po’ alla volta. Il motivo è che in ciascuno di noi l’opera di Dio si manifesta, si svela. Infatti noi custodiamo la presenza di Dio.
Credo che anche quella di d. Eraldo, la sua lunga esistenza terrena, debba essere guardata così: con gli occhi della fede. Nelle vicende che l’hanno caratterizzata il Signore ha rivelato il suo amore: penso alla sua dedizione, al suo andare missionario, fino in Svezia, per accompagnare connazionali emigrati in tanti paesi europei. Ha cantato anche lui: “Ti lodino i popoli, o Dio, ti lodino i popoli tutti”. È parte del ministero sacerdotale l’apertura universale: a tutti e per tutti. Ha la sua sorgente nell’Eucaristia, in quel corpo dato senza esclusione.
A partire dalla pagina evangelica, che evoca la figura del Battista, penso ancora al ruolo profetico che non viene meno alla verità e alla denuncia. La profezia appartiene alla fedeltà al Vangelo. Erode mette in catene Giovanni Battista perché non si sottrae al dovere di denunciare il comportamento di Erode. Al battezzato, tanto più quando viene chiamato al ministero, è richiesto di dare il primato al Vangelo. Anche quando esso diventa scomodo e quando il suo richiamo non è gradito e viene osteggiato. Servire il Vangelo è servirlo nella verità e nella carità: vale a dire senza pretendere di imporre, accettando di patire anche persecuzione.
Il Battista ci ricorda che il servizio è anteporre tutto a sé stessi. La conversione permanente richiesta ad un pastore è proprio questa: dare la vita per dichiarare il primato di Dio. Così si lascia un segno. Mi piace riportare quello che mi ha scritto un sacerdote, dispiaciuto di non poter essere presente oggi qui: “d. Eraldo è stato per me una figura significativa e di riferimento nel mio sacerdozio… una persona attenta ai bisogni dei più fragili, un vero artista, non solo in campo pittorico, ma nella vita! Quelle figure che ti catturano e lasciano un segno”.
Oggi, usando il testo del Levitico ascoltato nella prima lettura, possiamo dire che d. Eraldo entra nel Giubileo, nel momento in cui ciascuno torna nella sua proprietà e nella sua famiglia. Entra in ciò di cui era parte, in ciò a cui apparteneva: la casa del Padre. L’anno giubilare (il 50° anno) era l’anno che ricordava a tutti che c’è un nuovo inizio. Che Dio dona di nuovo le condizioni per vivere dignitosamente, secondo il Suo progetto originario: quello che abbiamo lo riceviamo continuamente. È molto importante questa parola del Signore: ci aiuta a liberarci dalla logica dell’accumulo, del possesso. E ci ricorda che il tempo che viviamo ha un fine, un compimento. Anche economicamente il valore di una qualsiasi proprietà è relativo al tempo vissuto e a quello che ci spetta di vivere.
Le cose prendono il loro valore dal passare del tempo. Credo che il battezzato, il credente in Cristo morto e risorto abbia una profezia da testimoniare: il tempo che viviamo non è una sequenza di momenti che va verso l’infinito. Ogni momento, ogni giorno, ogni anno che passa, riducendo lo spazio che ci resta rispetto al compimento, rende preziose le cose che abbiamo e, insieme, ne ridimensiona il valore.
La profezia della speranza si manifesta anche nella serenità con la quale viviamo la vecchiaia, la malattia o l’inabilità. Anche in questo d. Eraldo ha consegnato una lezione da raccogliere. È per tutti. Anche per noi sacerdoti. La profezia della speranza manifesta quanto sia radicata la nostra fede in Colui che si dichiara: “Io sono il Signore, vostro Dio”.
È il Dio fedele alle promesse fatte ai nostri padri, rinnovate anche a d. Eraldo. Ed è in forza di queste promesse che ora affidiamo d. Eraldo al Dio della misericordia, perché si mostri con il nome rivelato a Mosè sul monte e sulla croce del Figlio suo. Gesù Cristo nostro Signore. Amen.