Nella Lettera pastorale che ci introduce nel cammino pastorale e personale di questo nuovo anno ho cercato di intrecciare dei fili: il primo cammino verso Emmaus, che in realtà è cammino di sempre del risorto con i suoi discepoli; quindi l’esistenza esemplare di don Giuseppe Beotti, avvenuta dentro un cammino di Chiesa, cammino di un popolo che subiva i colpi di coda di una stagione di delirio (diabolico) di onnipotenza. Possiamo dire una pagina di vangelo scritta con la mitezza del sangue versato.
Questi fili ho pensato di intrecciarli con il Cammino sinodale e la Visita pastorale. Fili che saremo noi a svolgere nell’ordito di questo nostro tempo.
Mi è parso che dovremmo sempre riannodare tra loro gli eventi che viviamo (più o meno ordinari), per farli comunicare e così riuscire a fare unità in noi, superando il rischio della frammentazione, della sequenza di momenti accostati che non si illuminano tra loro. Cerchiamo di non smarrire per strada questa ricerca di unità.
La Lettera, in linea con gli anni scorsi, non è lunga e spero sufficientemente chiara nelle sue parti. Pensando a questo momento mi è parso opportuno soffermarmi su ciò che dobbiamo intendere con l’espressione: “fase sapienziale”. La Chiesa italiana nel Cammino sinodale, dopo la fase dell’ascolto o narrativa, è invitata a passare a quella sapienziale. Temo che alcune espressioni, come questa, non appartenendo al nostro vocabolario, rischino di non essere chiare nel loro significato o fraintese. E di fronte a qualcosa di non immediata comprensione si tende ad andare oltre.
In realtà dentro a questa espressione c’è un passaggio importante e necessario da fare, rispetto a ciò che negli anni scorsi abbiamo visto e analizzato.
Che cosa intendiamo quando parliamo di fase o lettura sapienziale?
Vorrei partire da una lettera che appartiene alla corrispondenza tra il vescovo Menzani e don Beotti, relativamente alla nomina di d. Giuseppe di parroco a Sidolo. Don Giuseppe, che proveniva dalla parrocchia di Borgonovo, dove aveva trascorso i primi quindici mesi della sua vita sacerdotale con entusiasmo, manifesta con grande sincerità al Vescovo la difficoltà nel collocarsi in una parrocchia dove si trova “senza giovani, senza bimbi, senza scuola, con una popolazione di poco più di cento anime” e aggiunge, con una trasparenza che commuove: “mi sento in certi momenti anche senza vita e più forte si sente l’isolamento”.
Uno sguardo realistico della realtà, nella quale c’è anche lui e il suo vissuto. Non fa una lettura della realtà distaccata e non cade in un conseguente spiritualismo disincarnato. Tutt’altro. Confessa uno stato d’animo molto preciso: l’isolamento. Quella sensazione è parte della relazione tra il pastore e il popolo che gli è stato affidato. Il giovane parroco onestamente dà riscontro al suo Vescovo di quello che accade in quella parrocchia. È questo il primo passaggio di una lettura sapienziale: aderire fino in fondo alla realtà e riconoscere ciò che essa suscita in chi vi è immerso.
Diventa decisivo il modo di vivere quella situazione. Perché essa può indurre un atteggiamento pericoloso: di subire, di venire travolti, di lasciarsi andare. Di non lasciarsi istruire. È quanto troviamo in un passo del libro dei Proverbi (uno dei libri Sapienziali): “Sono passato vicino al campo di un pigro, alla vigna di un uomo insensato: ecco, ovunque erano cresciute le erbacce, il terreno era ricoperto da cardi e il recinto di pietre era in rovina. Ho osservato e ho riflettuto, ho visto e ho tratto questa lezione: un po’ dormi, un po’ sonnecchi, un po’ incroci le braccia per riposare, e intanto arriva a te la povertà, come un vagabondo, e l’indigenza, come se tu fossi un accattone” (Pr 24,30-34). Questo è il secondo passaggio richiesto dalla lettura sapienziale: il discernimento, ovvero riconoscere ciò che in quella situazione rappresenta un pericolo, una minaccia. Riassunto in questo modo: se non affronti quello che capita, verrai travolto da esso. Intendiamo quella trascuratezza che ti impoverisce, che ti fa perdere il gusto delle cose, che fa morire dentro (”mi sento in certi momenti anche senza vita…”). Non possiamo soffermarci, ma qui si annida quella che i padri del deserto chiamavano l’accidia. Ovvero l’insofferenza per il tempo e il luogo dove si vive, a cui si associa la fuga reale o nel fantasticare.
La lezione che don Giuseppe ha imparato la traduce così: “Intensificherò gli sforzi, moltiplicherò le mie energie, lavorerò più in profondità che in estensione, più nel tempio vivente dell’anima, che nella casa di Dio”.
Prima di tutto impara, si lascia istruire dalla vita. E nel momento in cui traduce operativamente la frase centrale (“lavorerò più in profondità che in estensione”) sembra indicare qualcosa di impreciso: “nel tempio vivente dell’anima”. Cosa vuol dire? Può riguardare lui, la sua anima, quindi la cura di sé e della sua fede, come pure indicare una scelta pastorale: un’attenzione alle singole persone, piuttosto che concentrarsi sui momenti comunitari (cioè “la casa di Dio”). Ecco il passaggio successivo della lettura sapienziale: fa proprio un criterio pastorale che riguarda lui prima di tutti, la sua spiritualità, la sua persona con i sentimenti che sta provando. Questo criterio riguarda tutti, ma il primo ad esserne partecipe è proprio il pastore.
In questo percorso tratteggiato, siamo in grado di raccogliere in maniera precisa cosa comporta la lettura sapienziale. Tutto ciò che la realtà in cui si è immersi provoca, con le sue contraddizioni e con gli evidenti limiti e povertà, chiede il coinvolgimento della persona e dei compiti che gli sono richiesti, così da provocare una conversione, vale a dire un modo diverso di cogliere il contesto. Don Giuseppe accoglie un cambio del suo modo di intendersi come sacerdote – così come era stato immaginato da seminarista e sperimentato nei primi mesi a Borgonovo -, e si lascia modellare da questo contesto di indiscutibile povertà. Non ci è detto cosa abbia determinato questo passaggio. Lo possiamo ipotizzare conoscendo, attraverso le testimonianze raccolte, la sua intensa vita di preghiera. La Sapienza non è altro che il dono dello Spirito santo che mette in sintonia il nostro cuore con il cuore di Dio. Si può dire che in quella situazione d. Giuseppe abbia potuto accogliere la chiamata a stare in nome di Gesù con quella piccola porzione del popolo di Dio. Di seguito infatti scriveva: “Non vi chiedo nulla… Vi chiedo una parola di conforto, ditemi qual è la volontà di Dio”. E proprio questo gli risponderà il Vescovo: “stai tranquillo nella sicurezza che fai la volontà di Dio”. Vivere nella fede e con fede quella situazione gli permette di intravvedere come sia possibile starci e quali esigenze pastorali siano presenti. La lettura sapienziale orienta scelte precise, una conversione personale insieme a quella pastorale.
Ho preferito partire dalla testimonianza nel nostro Beato che ho trovato assolutamente in sintonia con quanto la Scrittura ci consegna relativamente alla Sapienza da cercare e che i i saggi dell’Antico Testamento avevano saputo raccoglere dentro l’esperienza umana. Potremo dire che la sapienza parte dalla vita per tornare alla vita, superando il rischio di lasciarsi guidare dalla reazione spontanea che nasce in noi, per favorire una conversione in forza di Colui che abita la storia: il Dio della vita. È il medesimo movimento che troviamo nel racconto dei due di Emmaus, che fintantoché non sono raggiunti da Gesù, rimangono invischiati nelle maglie dei sentimenti che il Venerdì santo aveva provocato. Anche per loro si ripropone il medesimo movimento: dalla vita alla vita, ma nuovi nello sguardo e nella determinazione per aver accolto il Risorto, nella Scritture e nel Pane spezzato.
Nella tradizione sapienziale, la saggezza è una conoscenza profonda (non superficiale, né veloce) della realtà, una comprensione del mondo. La si impara nella quotidianità e attraverso la propria esperienza vissuta e riletta con intelligenza (da intus legere: cioè leggere dentro). E dal momento che ciò che si vive è dinamico e in sé anche ambivalente, è chiesto un esercizio continuo della sapienza.
Per queste ragioni una “lettura sapienziale” prevede di non rinchiudersi nell’affermazione di principi, ma di ritornare sul vissuto, perché lo Spirito del Signore aiuti a scorgere ciò che esso porta e rivela alla luce della fede. Come ho accennato relativamente al cammino dei due di Emmaus, decisiva è la morte e la risurrezione di Gesù. L’esito della vita di Gesù – che è la risurrezione, non la morte in croce – conferma che noi operiamo i nostri discernimenti alla luce della sua persona e del suo Vangelo. Non si può dare una fase sapienziale senza un riferimento al Vangelo, senza un ritorno alla sua Pasqua, che invera le sue parole e la sua persona. La lettura della storia ci è opaca, qualche volta ingannevole, perché continuiamo a sostituirci con i nostri criteri mondani (come ripete papa Francesco) alla verità del vangelo.
Intuiamo che la buona riuscita di questa seconda fase del Cammino sinodale dipende molto da quanto il Vangelo riesce ad entrare nelle nostre valutazioni, in ciò che orienta le nostre scelte. Quanto cioè i criteri evangelici sono assunti a livello personale e comunitaria per individuare le scelte da fare. Magari, come direbbero i Saggi dell’AT, non è una questione di scelte buone o cattive, ma piuttosto di scelte sagge o sciocche. Il primo ed evidente segno di quello che stiamo scegliendo è il livello di conversione che ci è richiesto e che siamo disposti a vivere.
Convegno Diocesano – 30.09.23