Lc 4, 1-13
(Gesù è tentato? Ma lui non è figlio di Dio? Se è tentato Lui…)
All’inizio della quaresima Gesù passa da un luogo di vita (rappresentato dal fiume – dalla presenza dell’acqua – come pure dal battesimo, gesto di purificazione e di rigenerazione, dall’essere in mezzo a tanta gente) ad un luogo di morte: il deserto è inospitale, manca delle condizioni di vita, è luogo di solitudine. Questo ‘spazio fisico’ che è esperienza umana molto diffusa, viene abitato da Gesù perché con Lui anche noi possiamo abitarlo.
Non solo. Gesù è tentato, riconosce quali scelte che si presentano davanti a noi sono tentazioni, perché ci orientano lontano dal Signore e da noi stessi. Le riconosce e le vince, perché questo sia possibile anche a noi, quando siamo uniti a Lui e alla sua Parola.
Mentre non ci è detto per quanto tempo Gesù rimane al Giordano, ci è detto che nel deserto rimane 40 giorni. I numeri non sono a caso. Potremmo dire che esprimono un significato: 40 dice “il tempo necessario per”, “il tempo opportuno per”. Necessario a che cosa? per giungere ad avere fame. Non lo dobbiamo prendere alla lettera! Noi abbiamo una resistenza, le nostre forze hanno però un termine: c’è un limite oltre il quale siamo deboli, vulnerabili. “Non ce la faccio più!”. Il grado di resistenza varia da persona a persona, ma il punto di crisi arriva per tutti. Proprio allora si fa strada la tentazione: si presenta a noi come una soluzione, una via d’uscita.
- Gesù – questa è la tentazione – viene richiamato ai suoi poteri divini: “trasforma questi sassi in pani” (se sei veramente figlio di Dio lo puoi fare!). Se non lo pensa da sé stesso, c’è sempre qualcuno che glielo mette davanti: dimostra quello che sei! È la suggestione di intervenire forzando la realtà. Intervenire per risolvere i problemi, per soddisfare il bisogno (ho fame!). Questo vale per i nostri bisogni, come può valere di fronte ai bisogni delle persone che abbiamo accanto. Verso coloro a cui si vuole bene (ad es. i propri figli). Quando il proprio figlio non va bene a scuola (intervieni presso l’insegnante!); se sta giocando e perde (diventa tifoso da curva con insolenze a tutti: agli avversari, all’arbitro, ai compagni, all’allenatore); la crisi economica ha messo in difficoltà la famiglia (come non assecondare ogni richiesta e capriccio?). Sono esempi, ma in quante altre situazioni siamo spinti (tentati appunto) a rispondere ai bisogni in cui ci si trova. La tentazione nasce dalla difficoltà, dalla sofferenza di vedere in fatica sé e gli altri.
Il limite, quando non è accettato, induce ad eliminare l’ostacolo, a togliere di mezzo ciò che genera la sofferenza. In realtà quando assecondiamo la paura della frustrazione (“cosa potrà fare?”), noi alimentiamo insicurezza. In questo modo crescere la sensazione che non ce la può fare. Non gli è mai stato possibile sperimentarsi. È un vero e proprio delirio di onnipotenza: non posso non intervenire! Ma se mio figlio non si misura con la frustrazione non crescerà forte, consapevole delle sue risorse!
La risposta di Gesù alla tentazione: “non di solo pane vivrà l’uomo”, rinvia ad altro che è capace di nutrire la vita. La vita si può alimentare anche dalla fatica, dall’imparare a stare nella condizione della mancanza. Le persone vivono in forza dei desideri, vivono quando imparano ad invocare (preghiera), quando coltivano l’attesa. Non solo se il presente è gratificante. Tutto questo permette di scoprire che la vita è dono, non soddisfacimento dei bisogni.
- Anche la seconda tentazione ha a che fare con i limiti. Ma in questo caso un limite da porre. Perché davanti a Gesù viene messo “tutto”: tutti i regni, tutto il potere e la loro gloria… ”tutto sarà tuo”. E l’ebbrezza di avere tutto si presenta “in un istante”. L’illusione del ‘tutto’ si sposa con il ‘subito’. Il fascino del possedere, del disporre di tutto è di ogni età. Attraversa in maniera indifferente ciascun umano. Ma è vero che l’esperienza fa dire ai meno ingenui: “dov’è il trucco?”. Perché chi è disposto a lasciarti tutto in realtà ha riservato per sé dell’altro. “Se ti prostrerai in adorazione dinanzi a me”. Il prezzo è la sottomissione a qualcun altro o a qualcos’altro. Il “tutto” è un inganno: il risultato è che ci si trova senza la dignità. Perciò non solo non ottiene, ma si perde tutto. In questa logica io valgo quando ho tutto. Ma in realtà non valgo nulla. Ci si inchina al male. Ci si snatura, perché l’uomo non può avere tutto. Potremmo dire che si tratta della tentazione dell’ingordigia: del tempo (“non c’è tempo…”). Si racconta che un africano avrebbe detto rivolgendosi ad un europeo: Voi avete l’orologio, noi abbiamo il tempo! Ingordigia del denaro, del successo… Quanto ci si affanna per accumulare, ma a che prezzo?
Qui ritroviamo poi il bisogno compulsivo di volere tutto e subito: Amazon Prime risponde in tempo reale. Qui è racchiusa l’insoddisfazione per qualsiasi risultato raggiunto: “posso fare di più! Puoi dare di più” (penso in particolare all’esasperata competizione scolastica, soprattutto tra le ragazze).
In questa pretesa di avere tutto c’è anche l’attenzione dei figli per sé: la possiamo chiamare la sindrome del figlio unico, per la quale c’è una gelosia dominante.
Se vogliamo possiamo anche aggiungere altro. Ad es. voler mantenere aperte tutte le possibilità, per questo non ci si decide più, perché vorrebbe dire escludersi delle possibilità (come lo sposarsi o mettere al mondo dei figli).
Ecco svelata la seconda tentazione: pensarsi senza limiti, senza regole, guidati dalla illusione di disporre senza limitazioni.
La risposta di Gesù: c’è solo uno che è tutto, Dio. Non il proprio io. A Lui dai tutto perché non ti rende schiavo, ma ti consegna la tua libertà. Ti colloca al tuo posto e ti consegna la tua misura. Solo nel riconoscersi creature e figli c’è felicità.
- La terza tentazione completa la trilogia del limite: essere tentati dalla sfida. Nasce dall’ebbrezza del potere raggiunto, della posizione sociale, del successo. “Tutto mi è possibile, perché a me non capiterà mai…”. È l’esporsi oltre quello che è giusto, onesto, prudente, possibile. Essa fa leva sulla mancanza o la ridotta percezione del rischio.
Quello che si ha (la vita, gli affetti, la salute, il lavoro, la credibilità) non viene percepito per la sua preziosità e fragilità. La fede (o presunta tale) può alimentare la sfida: “prego perché il Signore mi faccia andare bene tutto…”.
Il limite accettato ed accolto porta a considerare le conseguenze, a valutare i rischi per sé e per gli altri. Questa tentazione fa leva sulla superbia.
Stupisce la risposta di Gesù: “non metterai alla prova il Signore tuo Dio”. Non tentarlo: cioè non renderlo strumento nelle tue mani. Non metterti dalla parte del diavolo.
Questa conclusione delle tentazioni apre in modo sorprendente una possibilità ‘diabolica’. Noi possiamo passare dall’essere tentati a diventare tentatori. Mettere alla prova il Signore per piegarlo ai nostri criteri e progetti: ricordiamo Pietro che tenta Gesù quando contesta la sua decisione di andare a Gerusalemme a morire (“Vai dietro di me, Satana”). Allo stesso modo noi possiamo tentare, cioè indurre nella tentazione, anche chi ci è vicino, cadendo nel tranello di considerare e vivere un limite che ci fa soffrire come un fallimento.
Amare i nostri limiti e quelli altrui non è sinonimo di rinuncia, ma di misura. La misura del nostro essere creature, figli e fratelli.




