Is 26,7-9.12.16-19

Mt 11,28-30

Celebriamo il congedo di don Giovanni dal nostro presbiterio, dalla nostra chiesa e dai legami familiari sotto il segno di questo canto di lode di Gesù. Una vera e propria perla che troviamo nel vangelo e dice la meraviglia di Gesù di fronte ad un Padre che opera nelle persone piccole, negli umili. Ciò che di più grande e prezioso il Padre consegna al mondo avviene su una via maestra, una modalità privilegiata: non quella della sapienza umana, ma quella dell’umiltà, intesa come piccolezza cercata e non patita o semplicemente subita. Nelle testimonianze che ho raccolto, non solo in questi giorni, sulla persona e sul ministero di don Giovanni, c’è un tratto che ritorna: la sua umiltà, vivere la povertà senza essere trascuratezza. Rifuggiva ogni riconoscimento, perché riteneva di non aver fatto niente di particolare, di straordinario per essere elogiato. “Ho fatto il mio dovere giorno per giorno”. “Il sentiero del giusto è diritto, il cammino del giusto tu rendi piano” (Isaia 26,7). La strada dell’uomo reso giusto dal Signore sembra una strada senza ostacoli e difficoltà. Ma se andassimo a ripercorrere le tappe del suo (lungo) ministero sacerdotale il cammino è stato tutt’altro che diritto, senza ostacoli. Basti pensare alle condizioni in cui è vissuto ad Olmo. Mi si dice che non è mai mancato sulle sue labbra il sorriso e l’ironia arguta, qualità che attraggono. Cercato per questo suo tratto, e direi ricercato che permetteva a tutti di sentirsi a casa. Quanto c’è bisogno nel nostro presbiterio di figure rasserenanti, di spazi di relazioni che siano luoghi di riposo.

Ha espresso un profilo sacerdotale molto radicato in Gesù. Ha accolto con fiducia quell’invito ascoltato nel vangelo: ”venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi, e io vi darò ristoro” (Mt 11,28). Non solo, ma don Giovanni era radicato nel suo presbiterio. Non mancava di partecipare attivamente e cordialmente ai momenti più ordinari (in vicariato) come a quelli diocesani. Dimostrava così il suo senso di appartenenza.

Lamentiamo tutti, noi sacerdoti compresi, una condizione di stanchezza, a volte di oppressione, cioè di una vita pesante. La soluzione che spesso prospettiamo è la ricerca di abbandonare il giogo, di liberarci di ciò che ci è di peso. Invece Gesù ci invita a portarlo con la consapevolezza che lo sta portando Lui. Noi possiamo unirci a quell’opera che Egli sta compiendo e per la quale ci ha chiamato a condividere la fatica. Gesù fa nostre le fatiche del ministero qualunque esso sia, perché ci ricorda che  la missione, il mandato è e rimane suo. E’ l’invito a vincere la convinzione di essere noi a sopportare, da soli, la fatica del lavoro per il Vangelo.

Oltre al servizio pastorale nelle diverse parrocchie (come è stato ricordato) don Giovanni è stato una presenza discreta anche negli uffici di Curia. Per questo suo servizio è molto conosciuto. Anche questo dice la stima che c’era nei suoi confronti da parte dei miei predecessori che, evidentemente, hanno colto la discrezione e la cordialità che in questi uffici necessita, per creare legami di fiducia con i sacerdoti e le parrocchie.

In fine oggi sono qui -idealmente- testimoni della sua carità anche i sacerdoti che, insieme a don Stefano Garilli, sono stati da lui aiutati in Romania, raggiunti dalla sua sensibilità verso chi era in necessità.

E’ bello che non si sia fermato a inviare aiuti, ma che abbia cercato di incontrare periodicamente queste persone. Un modo anche questo per aiutare costoro a portare un giogo troppo pesante, superando la percezione di essere abbandonati, di essere dimenticati. E in questo modo, discretamente, ha preso il volto di Gesù e della sua cura per quanti continuano ad essere oppressi dalla povertà e dall’ ingiustizia. Il Signore lo accolga e lo ricompensi come servo fedele del Regno e del Vangelo.

Collegiata di Fiorenzuola – 18.07.24