Ap 12, 10-12a
2Cor 4,5-12
Gv 6,51-58
La celebrazione annuale del Patrono dà l’occasione di ritrovarsi, di convergere in una festa che è tradizionale. Perché la tradizione non scada in abitudine è necessario recuperare il significato simbolico di questa festa: un giorno, un luogo, una figura esemplare che dicono come per vivere insieme sia necessario abitare il tempo, gli spazi e alcuni riferimenti ideali. Non è solo il tempo che scorre che modella la città, ma le scelte che ciascuno mette in atto, le relazioni che si costruiscono o che vengono compromesse. L’assetto urbanistico, gli edifici e la qualità della vita fanno la città. Ma anche i riconoscimenti reciproci, il rispetto e la valorizzazione di ciascuno. Ringrazio allora i rappresentanti delle diverse confessioni e di altre religioni che hanno accettato di condividere la festa della città. Li vogliamo partecipi di questo grande spazio umano, perché con loro stiamo disegnando un volto inedito della nostra città e del suo territorio. Da vivere e da consegnare alle nuove generazioni.
Non è mia intenzione dare i compiti alla città, alla politica o all’economia. Mi auguro che la riflessione che propongo possa aiutare a considerare che le scelte, personali o comunitarie, in ambito civile, sociale o ecclesiale che riguardano la vita di tutti i giorni possano misurarsi con riferimenti ideali necessari per cercare il bene condiviso. La vicenda di Antonino, messo a morte a motivo della fedeltà alla sua coscienza che non gli permetteva di accettare di agire con violenza verso chi si dichiarava cristiano, ci richiama tutte quelle situazioni nelle quali la violenza, l’ingiustizia, la morte del giusto innocente si inserisce nel lungo elenco di segnali di morte che si impone in ogni tempo nella cronaca quotidiana. È molto facile oggi continuare a dare risalto a fatti (reali) negativi che accentuano lo sguardo preoccupato sul presente e sul domani. Il male reale e quello percepito non sono la stessa cosa eppure la percezione condiziona il senso di sicurezza, alimenta o riduce la fiducia, determina scelte coraggiose o piuttosto paralizza decisioni che generano futuro. Mi veniva spontaneo, a mo’ di esempio, chiedermi: nel caso di Antonino che cosa fa notizia? La sua uccisione o il coraggio di rimanere fedele a scapito della sua stessa vita? Il medesimo episodio tragico può essere narrato in maniera così diversa da suscitare reazioni opposte. Potremmo fare molti esempi: un gesto violento fa più notizia dell’individuazione e dell’arresto del colpevole. Lo spopolamento della montagna merita più attenzione dei coraggiosi giovani che scommettono sul futuro della montagna.
Non possiamo additare solo i colpevoli di tale sguardo sui fatti, perché c’è una domanda diffusa di cronaca nera e la tendenza ad aggiungere nei nostri discorsi lamento e denunce che fanno prevalere il senso di sfiducia e di tristezza. Noi stessi non siamo ricercatori di buone notizie. O di notizie incoraggianti. Eppure noi siamo discepoli del Vangelo che alla lettera è La buona notizia. Buona notizia dentro lo scorrere di una storia che è tutt’altro che la riedizione del libro Cuore. Il Vangelo e i tanti vangeli possono e devono essere narrati per imparare a riconoscere ciò che è in atto, anche se di suo tende di non fare notizia. Dovremmo assumerci tutti l’impegno di dare voce alla cronaca buona che ci circonda.
Così possiamo collocare il premio che ogni anno in questa occasione viene assegnato. Lo sappiamo bene l’Antonino d’oro non vuole indicare persone e testimonianze eccezionali. Perché l’obiettivo del premio è di portare alla luce vicende che ci inducono a dire che è possibile quello che normalmente non occupa la ribalta della cronaca ma che attesta che c’è tanta vita che induce a sperare. Ogni anno viene confermato che questi tesori sono custoditi e alimentati “in vasi di creta”, come ci ha ricordato s. Paolo nella seconda lettura. Siamo in presenza di realtà preziose anche se in un’umanità ordinaria. Questo porta a dire che non siamo in presenza di supereroi, ma di persone assolutamente simili a tutti noi. La differenza, verrebbe da dire, sta nel credere a quello che non sempre è evidente. La differenza sta nel non avere la pretesa di predeterminare obiettivi e cammini, ma di avere il coraggio di partire certi che camminando si apre cammino. Anche quest’anno Ludovica e Mauro sono l’esegesi delle parole di Gesù: “se uno mi vuol servire mi segua, e dove sono io, là sarà anche il mio servitore”. È il Signore Gesù che apre cammini e che conduce dove all’inizio nessuno può prevedere. Se ci si affida, Egli è capace di operare in noi grandi cose.
Mauro e Ludovica, come tante altri fratelli e sorelle che si riconoscono nel carisma proposto da d. Oreste Benzi, fanno di una famiglia una casa e una casa, con le porte aperte, diventa famiglia per chi non può dire di avere una famiglia. Possiamo scommettere sulla possibilità di creare reti di sostegno tra famiglie, a condizione di combattere la presunzione di poter bastare a sé stessi. Perché ciascuno cerca casa e famiglia oltre il proprio appartamento. Oggi assistiamo ad un amaro elenco di storie relazionali e familiari che si incagliano nelle secche di un mare che è navigato a riva. Denunciamo il fenomeno della denatalità che prima che essere un fatto biologico è paura di riuscire a sostenere l’incertezza del futuro. Perché troppo soli. Viviamo relazioni incatenate alla fatica di assumere per sé e per l’altro/a un impegno per il futuro. Diventare generativi, cioè capaci di dare vita, è la sfida per tutti.
Oggi si aggiunge un messaggio che raccogliamo dalla Comunità Papa Giovanni XXIII: c’è tanto bene sprecato perché manca chi riesce con pazienza affiancarsi anche a quelli che consideriamo casi disperati. Tra le pieghe delle loro storie è possibile trovare con stupore qualcosa di inedito che sicuramente è a beneficio prima di tutto di quanti la nostra società troppo frettolosamente tende a scartare.
Piacenza, 04 luglio 2024