Prendo a prestito il tema del Giubileo del prossimo anno per offrire queste riflessioni sulla Pasqua che stiamo celebrando: “Pellegrini di speranza”. La speranza, di cui siamo tutti assetati, è il vedere un futuro, in forza del quale continuare a vivere e appassionarsi. Un futuro per cui vivere e morire. La speranza scaturisce dalla Risurrezione di Gesù. Altrimenti prende altri nomi, tutti degni di considerazione: ottimismo, fiducia, auspicio, aspettativa, sogno.
La differenza è che la speranza ha in sé qualcosa che si è già realizzato, qualcosa che rappresenta l’inizio anche per me, per noi. L’evento a cui la speranza cristiana fa riferimento è la vittoria di Cristo sulla morte e su tutte le situazioni ad essa collegate. Quali il peccato, l’ingiustizia, la violenza, il male in generale. Tutto ciò che continua a minacciare l’essere umano, direttamente o indirettamente, e che mina il suo futuro gettandolo nello sconforto, quando non è nella disperazione, è stato sconfitto. È innegabile che esso si presenta e che sembra vincente, ma il suo esito è segnato dalla risurrezione di Gesù.
Ecco che la speranza rimane ancorata in Gesù Cristo, il crocifisso risorto, con il quale rinnovare un legame profondo. Solo la fede è in grado di tenere viva questa relazione e la celebrazione annuale della Pasqua è la sorgente da cui continuiamo ad attingere. Associare come fa papa Francesco la speranza all’essere pellegrini, viandanti permanenti significa evocare una postura esistenziale. La stanzialità, la pigrizia sedentaria di chi si accomoda nella vita è il pericolo più serio da cui guardarsi. Così come la rassegnazione e la rinuncia che si alimentano dei nostri fallimenti e dell’esperienza di tanti tentativi vani.
Oggi la stessa comunità ecclesiale rischia di non vivere pellegrina di speranza. Anche se la condizione storica non esige che questa virtù teologale. Per non correre il rischio di diventare insignificanti è necessario essere una comunità pasquale che pone tutta sua visione del presente e del futuro non sul passato (magari glorioso e meritorio) delle nostre parrocchie, dei nostri oratori, delle nostre associazioni e movimenti, delle nostre famiglie. C’è un passaggio di morte da accettare, come ci ha ricordato Gesù nel vangelo, come il chicco di grano caduto a terra. Spesso sbattuto a terra rovinosamente. La morte non solo non è una sciagura, ma una necessità. Al punto da dire: è provvidenziale la situazione nella quale ci siamo trovati. Non siamo riusciti a staccarci dal passato, aggrappandoci ai residui su cui ancora potevamo contare. Oggi siamo spogliati anche delle nostre illusioni che abbiamo manifestato in quelle rassicuranti frasi: “c’è ancora…”.
Non ci siamo detti che in quell’“… ancora” ci stavamo negando la necessità di rinascere, per non accontentarci di sopravvivere. Di prendere in mano il timone e non di assecondare l’inerzia di una macchina in movimento, ma senza carburante e guida. Ripiegati nel leccarci le ferite, nel piangere le mancanze rischiamo di perpetuare il venerdì di morte.
La lezione della Pasqua non è assolutamente facile da apprendere, perché non è immediato accettare di essere “consegnati”, come Gesù, nelle mani degli uomini. Non è istintivamente spontaneo rinunciare a possedere la propria vita e quella della Chiesa. Si tratta di decidere se accontentarsi delle illusioni o alimentarsi di speranza, che non delude, perché confida nel Risorto e nello Spirito che è stato riversato nei nostri cuori e che grida: “Abbà! Padre”. Buona speranza a tutti e alla nostra comunità ecclesiale.
† Adriano Cevolotto,
vescovo di Piacenza-Bobbio