Questo lungo racconto della Passione di Gesù si conclude con il sepolcro, dove il corpo di Gesù viene deposto e sul quale viene posta una grossa pietra. Metterci una pietra sopra è diventata nel nostro linguaggio l’espressione per dire il desiderio e la volontà di seppellire il passato, di voltare pagina e dimenticare. Ma anche per far passare sotto silenzio ciò che disturba, inquieta. Magari anche le nostre responsabilità.
È tremendamente drammatico l’esito della vita di Gesù. La sua vicenda sembra avere il medesimo destino delle cose umane: la parola “fine”. Più ancora che la croce e la morte ignominiosa che là si consuma, è inquietante il successivo passaggio che sottrae anche allo sguardo questo Rabbì. Con la morte si vuole proprio eliminarlo.
È la fine dolorosa per chi aveva scommesso tutto su di lui. È la parola fine per chi era stato disturbato e aveva patito scandalo dal messaggio che risuonava nelle parole e nei gesti di Gesù.
La parola “fine” per gli uni è tragica e per altri rassicurante. Tragica per chi non vede futuro dopo ciò che è successo. Rassicurante per coloro che hanno vissuto Gesù come un ostacolo al loro quieto vivere: finalmente!
È finito tutto! Finalmente è finita! Lo stesso esito, due sentimenti opposti.
Ma è possibile che tutto sia finito così? Ai discepoli di allora e a noi sembra addirittura un inganno: “ci avevamo creduto”. E Gesù fa proprio, sulla propria pelle, lo scandalo del fallimento. Lo condivide, ne porta il peso. Perché come ogni successo trasfigura, ogni fallimento sfigura.
Nel suo sepolcro ci sono anche tutti i nostri fallimenti, tutte le belle storie e speranze che si imbattono sulla parola: “fine”.
Ma Gesù ha un altro finale, inatteso, a ciò su cui viene impresso il sigillo della fine. È reale, non è una fantasia, il dramma della croce e il sepolcro in cui si depongono tante speranze. Eppure c’è un’attesa, di un nuovo inizio. Infatti rimane nell’aria l’annuncio che “il terzo giorno risusciterà”. Annuncio in forza del quale il venerdì può diventare Santo. Santo perché c’è il terzo giorno. Altrimenti rimarrebbe un venerdì nero. In mezzo c’è quel tempo, spesso eterno, che separa la ‘fine’ del venerdì dalle luci della Pasqua, dalle luci del giorno nuovo. Dentro a questa attesa si anima la speranza nella invocazione: vieni, Signore. Non tardare a manifestare la tua gloria.