A leggere i titoli dei giornali o a sentire i discorsi di questo tempo, sembra che non ci sia molto da ringraziare. Ieri l’Ansa scriveva: “Addio al 2020, l’anno più brutto delle nostre vite”. Più comunemente questo è “un anno da dimenticare”. Coerentemente con queste e mille altre espressioni simili avremmo motivo per cancellare questa celebrazione. Perché mai dovremmo ringraziare e lodare Dio?
Forse il motivo sta proprio nella fatica o addirittura nell’incapacità di farlo. Presi dal clima che respiriamo, dalle oggettive condizioni nelle quali ci troviamo a vivere, dalle sofferenze che hanno attraversato le nostre comunità, le nostre famiglie e le nostre persone non ci viene spontaneo ringraziare. Non riusciamo a trovare i motivi per cui lodare il Signore. Al di là dei discorsi che ritengono il virus un castigo… viene spontaneo essere sopraffatti dalla sofferenza che lancia un’ombra cupa su questi mesi.
Il Te Deum, che inizia con le parole: “Noi ti lodiamo, Dio, ti proclamiamo Signore. O eterno Padre, tutta la terra ti adora”, si conclude con: “Pietà di noi, Signore, pietà di noi. Tu sei la nostra speranza, non saremo confusi in eterno”. È questa l’invocazione che sale al Signore: fa che non rimaniamo confusi. Cioè fusi-con l’emergenza, fusi-con la paura, fusi-con la sofferenza. E perciò chiusi alla speranza. È una grazia questa celebrazione della Chiesa, perché ci assicura che ci sono motivi per rendere grazie al Signore. Si tratta di riconoscerli. Solo così la sofferenza procurata dalla pandemia non seppellisce l’anno che si conclude e compromette quello che sta per iniziare.
Personalmente questo anno ha portato una nuova chiamata che, l’ho ricordato, mi ha chiesto un lasciare, ha comportato il rimettere in gioco in modo diverso la vita, le relazioni, la fede nel Signore della vita. Ho avuto la conferma che in ogni condizione destabilizzante, cioè che manda all’aria le proprie sicurezze, i riferimenti consolidati, che interrompe o modifica i legami, a volte ce li sottrae (come nel caso della morte)…, il Signore offre qualcosa, una grazia che attraversa il dolore per ciò che perdiamo. Questa offerta, che manifesta la Sua presenza e il Suo amore, è vita, è scoperta di ciò che prima non vedevi, che ti sfuggiva. Così si dà la fedeltà di Dio.
Non possiamo tacere o banalizzare la sofferenza che continua a segnare i giorni del nostro calendario. C’è ancora desolazione e tristezza che vanno rispettate e accompagnate. Ma non è tutto qui.
Le corsie dei reparti dei nostri ospedali hanno registrato insieme ai ricoveri, ai decessi e (grazie a Dio) alle dimissioni, una quantità esagerata di dedizione, di sacrificio, di dono. Il dolore, se ha provocato fratture, crisi di fiducia e di speranza, ha, al contempo, fatto emergere prossimità, solidarietà. Ha suscitato domande di senso, quando ci siamo ascoltati nel profondo. Ha messo in luce tanta vita sprecata dietro a cose inutili. Ha unito molte persone in un vincolo stretto, da tempo non sperimentato.
Le limitazioni imposte per le esigenze sanitarie non hanno limitato tanta volontà di vicinanza premurosa. C’è tra noi più gratuità di quella che pensavamo fosse presente. Se la nave, sotto l’infuriare della tempesta, ha perso in mare tanto carico di cose che stimavamo necessarie, indispensabili, questo ci ha permesso di salvare la nave. E con essa la vita. Di tutti. O meglio, di molti.
Lo scoprirci superstiti ci ha consegnato la coscienza della nostra precarietà, precarietà della vita che è e rimane sempre un dono fragile e per nulla al sicuro. E così, abbiamo percepito che il nostro enorme desiderio di vita non può esaurirsi in questi quattro giorni di vita che ci sono concessi. Ci siamo vissuti spesso come immortali ed abbiamo scoperto che così non è.
Potremmo continuare a lungo a recuperare i motivi per innalzare al Signore la nostra lode e il nostro ringraziamento. Concludendo vorrei ricordare che ci siamo risvegliati scoprendo legami inimmaginabili. O forse che non volevano riconoscere. Il tutto è iniziato constatando che non c’è nulla che accada lontano da noi, fosse anche in Cina, che non ci riguardi. E così abbiamo scoperto che Wuhan (chi mai conosceva questa città?) è alla periferia di Piacenza. O, per essere più precisi, che Piacenza è alla periferia di Wuhan. C’è una interdipendenza che ci obbliga a sentirci uniti: le scelte, gli stili di vita che mettiamo in atto qui hanno conseguenze lontane e viceversa. L’invito forte che ci ha fatto papa Francesco, Fratelli tutti, è appello alla responsabilità. Richiamo a viverci interdipendenti. Non solo nel pericolo (l’altro può trasmettermi il contagio), ma nell’aiuto (insieme siamo più forti). Sono i legami che ci/mi costituiscono. È la comunione.
L’anno che abbiamo davanti, grazie al vaccino, si apre sotto migliori auspici. Chiediamo al Signore di non cadere in una delle frequenti amnesie collettive che ci fa dimenticare, insieme a ciò che abbiamo vissuto, anche la realtà delle cose: l’emergenza sanitaria non è la sola da affrontare e da sconfiggere. Affrontiamo anche quelle ad essa collegate (quella sociale, economica, educativa, culturale…). Affrontiamole con la stessa forza e con la stessa dedizione messe in questo anno. Così si potrà scrivere un’altra bella e nuova storia. Buon Anno.