Cattedrale

Ap 7,2-4.9-14 1Gv 3,1-3 Mt 5,1-12a

Rispetto al comune modo di pensare, per cui la santità è di pochi battezzati, oggi la Liturgia ci parla di una “moltitudine immensa, che nessuno poteva contare, di ogni nazione, tribù, popolo e lingua”. La santità parla qualsiasi lingua, non ha limiti di tradizioni e di appartenenze geografiche, culturali ed ecclesiali. A conferma il fatto che ormai ogni canonizzazione (o beatificazione) ha come protagonisti uomini e donne di provenienze le più diverse e non c’è stato di vita che non sia rappresentato e indicato al mondo come esemplare. Ciascuno, con un vocabolario proprio, parla dell’amore di Dio, ciascuno è un riflesso della Santità di Dio.   Ho ricordato di recente una considerazione del santo vescovo di Bobbio, Antonio Gianelli, che così diceva: ”E’ un inganno del demonio… l’aspettare un tempo più comodo per fare bene”. E’ questo lo stato di vita e il tempo nel quale ci è chiesto di essere santi. Vivere nel limbo dell’attesa di tempi migliori è la smentita più clamorosa del mistero dell’Incarnazione, centro della nostra fede. E’ accaduto in un punto della storia e del mondo che non aveva nessuna condizione ottimale per il suo esito.

Questi che sono vestiti di bianco, chi sono e da dove vengono?” è chiesto a Giovanni. La risposta alla sua dichiarazione di non saperlo è precisa: “Sono quelli (…) che hanno lavato le loro vesti, rendendole candide nel sangue dell’Agnello”. Il sangue dell’Agnello è la carità/amore di Cristo. Sono quanti sono stati rivestiti della Sua carità. Santità e carità sono speculari. Tornando allora all’immagine della visione in cielo del libro dell’Apocalisse, in quella moltitudine è bene rappresentata l’esagerata abbondanza della carità. Una abbondanza che sfugge ad ogni nostro calcolo e misura. E per il fatto che essa è custodita e manifestata al mondo, l’amore (con la santità) non va perduta, rimane e ci custodisce perché è posta in cielo. Presso Dio. E’ un deposito a cui l’umanità, nella fede, può attingere. Siamo nell’Anno giubilare della speranza: anche oggi ci è assicurato che la santità non viene meno, perché l’amore di Cristo è più forte ed è capace di associarci ad esso. Ci rende partecipi della sua stessa forza.  Il cammino di santità è l’esistenza che si apre alla possibilità che l’amore di Cristo, la sua misura, ci conquisti e ci spinga.

Dove attinge questo cammino? Il vangelo ascoltato ci ripresenta la pagina delle beatitudini. L’evangelista Matteo le pone come porta d’ingresso dell’annuncio del Regno dei cieli, come condizione necessaria per far nostro il discorso della montagna di Gesù.

A prima vista è un paradosso, perché stride con le nostre convinzioni, che vengano elogiate le condizioni umane di mancanza (di risorse, di cibo, di forza, di giustizia). La felicità non sta, come tendiamo ad associare, nelle condizioni umane e sociali migliori. Ma neanche nell’ingiustizia, nella forza esibita per avere potere o ricchezza, bensì nel fatto che in queste condizioni ci si apre all’intervento del Signore, all’invocazione. La beatitudine fa un tutt’uno con l’invocazione che si apre alla presenza di Dio, al suo intervento potente. Per questo motivo, dopo aver accolto le beatitudini come l’annuncio del farsi prossimo del Regno, si può assumere quella condizione come scelta, come stile di vita, come forma per poter invocare e affidarsi alla promessa di Dio.

La santità come storia di amore ci è data e ci è resa accessibile a condizione che – come ci ha consegnato papa Leone – risuoni forte l’annuncio dell’Amore che ci precede: “Dilexi te: Ti ho amato”. I santi continuano a confermarci di questo cuore. Contempliamoli come vie percorribili. Come vie di Amore e di Santità.