CATTEDRALE – 01.11.22

Ap 7,2-4.9-14

1Gv 3,1-3

Mt 5,1-12

Chiunque ha questa speranza in lui (Dio), purifica sé stesso”. S. Giovanni ci dice che quello che contamina la nostra persona, la nostra esistenza, il nostro oggi è l’assenza di una speranza che non dipende da noi: la speranza è posta “in lui”. Solo così resiste alle delusioni. È il debito di speranza la ragione di esistenze tristi, perché chiuse in se stesse: la speranza non sono le nostre semplici attese che, pur necessarie, hanno un respiro corto, sono rivolte a qualcuno o a qualcosa che le può soddisfare come le può deludere. Sono a misura del nostro oggi e del nostro cuore.

La speranza invece è attaccata al cielo, ha la sua origine e la sua meta nel Signore che promette l’impensabile, ciò che oggi non è prevedibile. Perché non dipende da noi, ma da chi lo ha promesso.

Credo sia questo il tratto distintivo del santo, di ogni santo, di tutti i santi. Ed è significativo che non si parli di santità (che potrebbe essere un’astrazione) ma di santi al plurale. La santità è una, ma molteplice, variopinta. Sicuramente radicata nella fede e manifestata nella carità/amore, ma alimentata dalla speranza. Il santo è colui che osa l’“impossibile”, che nutre la sua vita della speranza che ripone in Dio. Che gli permette di intravedere ciò che ai più è precluso.

Così “purifica sé stesso”, andando all’essenziale. Così potremmo dire che quando non siamo radicati in ciò che è essenziale, perché vogliamo tenere in mano mille cose e siamo preoccupati di tutto, non siamo uomini e donne animati dalla speranza.

Le beatitudini, che sono il manifesto dell’esistenza umana che annuncia il Regno di Dio, ci consegnano delle situazioni umane contrassegnate dalla mancanza: di beni, di serenità, di forza e potenza, di giustizia, di possesso e di pace. Gesù dice non solo che proprio in questa condizione la promessa di Dio raggiunge la storia degli uomini, ma che nella mancanza, nella assenza il desiderio si apre alla speranza. Prova ne sia che chi, al contrario, è colmo, sazio, chi ha potere… è preoccupato che tutto ciò venga meno. Perché vede in sé e attorno a sé quanto tutto sia precario, provvisorio. In questo caso è vero che il presente gratifica e dà un’estasi di pienezza, ma la preoccupazione della sua durata alimenta l’ansia, la paura, fa scattare la difesa. Così tutto è risolto in un oggi che al massimo può essere conservato, diventando speranzicida.

I santi sono consapevoli che la loro persona e la loro vita ha un futuro perché abitato da una Parola – quella di Dio – che assicura un compimento di ciò che Lui ha creato. Che sorpassa ogni nostra immaginazione.

E quel ritornello “beati” risuona con forza anche perché è al plurale, apre ad un legame con tutta l’umanità che di suo si trova (in un modo o in un altro) nelle condizioni di chi invoca, di chi attende e perciò spera. La speranza è sempre al plurale, intreccia relazioni, condivisione, solidarietà. È un pensare al plurale, perché solo così essa si coltiva e non di-spera, sotto i colpi della solitudine mortale.

Oggi celebriamo la santità che è già presente nel mondo perché è già presente in noi. È la santità che ci è donata con la presenza di Cristo in noi: perché in noi è già stato riversato l’amore di Dio e nella storia è già presente e in azione il germe del Regno di Dio, che anima la certezza di un compimento in atto. C’è un ‘non-ancora’ perché c’è un ‘già’ che siamo invitati a riconoscere e a servire.