Ab 1,2-3;2,2-4
Tm 1,6-8.13-14
Lc 17,5-10
Consideriamo questa celebrazione eucaristica come il momento comunitario che raccoglie il nostro Magnificat personale, ecclesiale e comunitario. Vi ringrazio della partecipazione e della condivisione che abbiamo vissuto in questi giorni: una partecipazione vera e profonda che si è vista anche nelle piccole cose, come la puntualità, la presenza attiva, interessata. Grazie per la condivisione della fede che ho avuto la grazia di raccogliere da molti di voi in cose molto semplici, in osservazioni, in valutazioni, ma anche in qualcosa di più profondo e personale. Sono stato messo a parte dei frutti dello Spirito e della grazia per i quali possiamo cantare il Magnificat: la mia anima rende lode, rende grande il nome del Signore.
Il Signore poi ci sta accompagnando con la sua Parola, come sempre puntuale e provvidenziale. Oggi, nella pagina del profeta Abacuc, ci sentiamo interpretati nella percezione di non avere risposta alle nostre invocazioni. Abacuc raccoglie il rimprovero verso il Signore che non ascolta il grido di Israele. E’ la stessa esperienza che viviamo quando le nostre preghiere per la pace e per qualche altra necessità non trova la risposta attesa. Egli “non ascolta”. Il profeta ci mette in bocca l’amara constatazione: “perché … resti spettatore dell’oppressione?”. E questo mina la nostra speranza, perché la speranza è associata alla certezza o alla volontà di essere esauditi immediatamente. A noi che respiriamo con fiato corto la sensazione che non ci sia fine, Egli ci raggiunge con una parola che apre alla speranza: “E’ una visione che attesta un termine, parla di una scadenza”. Abbiamo bisogno, Signore, di sentirci confermati nell’attendere un termine di tutto ciò che minaccia, con la nostra ed altrui umanità, di immaginare futuro. Portiamo a casa questa Parola del Signore come motivo di consolazione, per alimentare la nostra speranza vigilante, la nostra attesa. La speranza vive di attesa.
Immagino sia comune l’esperienza di difettare di fede. Con una punta di stupore e amarezza invochiamo: Signore “Accresci in noi la fede”. Essa segue il discorso di Gesù sul perdono da accordare. Ci sono delle pagine del vangelo, delle parole di Gesù di fronte alle quali ci appare più evidente la fatica a starci, a crederci, a fidarci. Pagine, direbbero gli apostoli, o discorsi duri. Impossibili. Ecco, credo sia questa un’altra delle fatiche, degli ostacoli alla speranza. Sembra appunto che quello che il Signore ci prospetta sia irrealizzabile, non sia alla nostra portata, non sia alla portata della nostra fede: “Non sono mica un santo!”.
Mi chiedo se tra quelle parole ‘difficili’ non ci sia anche la seconda parte del discorso di Gesù: “Siamo servi inutili. Abbiamo fatto quanto dovevamo fare”. L’inutilità non va intesa come la dichiarazione che non serviamo a nulla, ma piuttosto che non ci deve interessare il risultato e anche il riconoscimento. Piuttosto è il pensarci come coloro che vivono il proprio servizio, non preoccupati dell’utilità, del risultato, della risposta, dell’apprezzamento di chi ci sta accanto. Per quanto l’attesa faccia parte di noi. Allora una delle pagine o delle parole più impegnative che Gesù oggi ci consegna può essere proprio questa: ritornare nella vita e nelle occupazioni di ogni giorno consapevoli che siamo chiamati a stare nella condizione che ci è data, a donarci, ad amare, a servire, incuranti o non preoccupati eccessivamente di tutto quello che potremmo o dovremmo ricevere o quantificare. Ci è chiesto di essere lì, dove siamo stati posti, con il desiderio di essere servi. Che cosa dovevo fare? Come l’ho fatto? Cosa ho preteso? Non si tratta di vivere un perenne senso di colpa per le cose che non abbiamo fatto come avremmo immaginato, ma piuttosto di lasciarci convertire continuamente perché quello che ci chiesto domani possa essere anche il frutto delle nostre purificazioni e conversioni.
Infine S. Paolo ci consegna due verbi che raccolgo come un’indicazione precisa per il nostro ritorno: “ravvivare” (il dono di Dio, che è in te), “custodire”, mediante lo Spirito Santo che abita in noi (il bene prezioso che ti è stato affidato). Il dono che abbiamo ricevuto non può essere mortificato. I doni che abbiamo ricevuto vanno dal nostro battesimo a tutti gli altri sacramenti, alla vocazione che abbiamo ricevuto come dono. Dono, sicuramente, è l’esperienza che stiamo concludendo. C’è un esercizio di memoria necessario. Mortificheremo il dono se non ritorniamo con la consapevolezza dell’essere stati arricchiti. Anche in questo pellegrinaggio siamo stati raggiunti da un qualche “bene prezioso”. Se è vero che ci è stato affidato, allora dobbiamo immaginarlo come qualcosa da custodire e da compiere. Esso si compirà grazie alla nostra cura, al nostro impegno. Qual è il dono, il bene prezioso che mi è stato messo in mano e nel cuore in questi giorni? Quale parola, gesto, emozione profonda è entrata in me provocando gioia? o magari un po’ di inquietudine? oppure consolazione? Questo “bene prezioso”, per essere riconsegnato, non può essere sepolto, ma fatto crescere. Crescerà non secondo i nostri criteri, ma secondo l’intenzione del Signore presente nel dono.
La speranza, che ci è consegnata in questo pellegrinaggio, è questa, è la speranza che il dono che abbiamo ricevuto, vissuto, sperimentato porti frutto e questo possa diventare una benedizione non solo per noi, ma anche per coloro che, tornando a casa, incontreremo.




