Basilica di S. Pietro

Gal 6,14-18

Mt 11,25-30

E’ con stupore e grande gioia che oggi, nel cuore del nostro Giubileo diocesano, celebriamo l’Eucaristia all’Altare della Cattedra. Un luogo che parla di comunione nella fede e nella carità. Un luogo eloquente per il rinvio alla cattolicità. Siamo qui con il desiderio, alimentato dal gesto dell’attraversamento della Porta santa, di entrare per la porta che è Cristo. Meglio ancora, di lasciarlo entrare perché illumini e riscaldi la nostra persona, la nostra esistenza, le nostre comunità. Ciascuno di noi è costitutivamente un intreccio di relazioni, le portiamo sempre con noi: quelle più strette, belle e qualche volta sofferte; quelle comunitarie o professionali; le relazioni più grandi, ma non per questo meno importanti, che ci fanno sentire parte del mondo. Ma il mondo è già parte di noi e delle nostre città e dei nostri territori, non possiamo dimenticarlo. Ce lo ricordano anche persone che sono con noi in questo pellegrinaggio, che condividono, pur provenienti da luoghi diversi, la stessa fede: il desiderio di essere uniti a Cristo. Relazioni che in questi giorni sono all’insegna dello scandalo dell’inimicizia, del conflitto distruttivo, ma insieme attraversate da aneliti alla pace.

Siamo tutto questo. Il ‘mondo’ è stato in cammino con noi dietro la croce, con noi ha attraversato quella porta. Con noi che ci vogliamo comprendere come pellegrini di speranza. Questo ‘mondo’ ha bisogno della nostra testimonianza di speranza, della nostra opera di speranza.

E’ dalla comunione dei santi che attinge la grazia giubilare. E’ grazia su grazia che questa celebrazione avvenga nella festa di S. Francesco di Assisi, patrono d’Italia. Un santo a cui siamo particolarmente legati. Ricorrere alla testimonianza dei santi è garanzia per ottenere i benefici dell’indulgenza. Perché la cosa che essi ci trasmettono è proprio la speranza: cioè che è possibile, in ogni tempo e in ogni condizione, vivere appartenendo a Cristo.

Io porto le stigmate di Gesù sul mio corpo”. Non sappiamo cosa queste parole significassero per l’apostolo Paolo. Certamente per Francesco d’Assisi indicano la grazia che la passione di Gesù Cristo fosse impressa nella sua carne. La vita di Gesù offerta per l’umanità intera è partecipata a tutti. Segna la nostra carne, ci testimonia Francesco. Il dono di sè attraversa le mani, i piedi, il costato, così che ogni gesto, ogni passo, tutto ciò che scaturisce dal cuore porta l’impronta dell’Amore crocifisso. Ma è anche vero che ogni gesto, ogni passo, ogni intenzione e volere è inevitabilmente partecipe della sofferenza di Cristo. Uniti a Cristo anche nel sentire il dolore dell’umanità su di sé. Il dono rimane sempre passione, amore patito. Quelle stigmate rimangono e si fanno sentire nel tempo. Eppure i segni della passione rimangono anche nel Risorto: quella vita offerta ha un esito di gloria e di risurrezione. Di speranza.  

Quando Francesco si spoglia delle sue vesti è per rivestirsi di Cristo, della sua vita nuova in Lui. Ogni scoperta del suo Amore provoca una conversione, raccolta in quel gesto di deporre le vesti del passato, con ciò che esse rappresentavano. Le vesti delle attese della sua famiglia, della ricchezza, dell’ideale del cavaliere che aveva animato il suo cuore. C’è tutto questo in quel gesto davanti al vescovo. E’ un invito anche per noi a domandarci di che cosa sia necessario spogliarci: spogliarci perché Cristo possa rivestirci della sua vita, del suo amore.

Possiamo dire che il canto di lode che nasce dallo stupore provato da Gesù di fronte ai suoi discepoli è a motivo della scoperta che Dio Padre predilige i piccoli. Forse ciò che ci è chiesto di lasciare è la logica della grandezza.

In che cosa abbiamo ridotto l’ideale del cristiano? In un uomo – donna grandi per i meriti, per l’eroismo delle loro virtù. Rappresentiamo la santità come il raggiungimento del massimo di qualcosa. Dimenticando che la grandezza di Francesco, di Teresa di Gesù Bambino, di Pier Giorgio Frassati o di Carlo Acutis (solo per ricordarne qualcuno) è nell’aver vissuto la piccolezza. L’ostacolo ad una vita evangelica non sta nell’incapacità di raggiungere cose straordinarie, quanto nel fare i conti con l’inadeguatezza e quindi con la percezione di quanto sia poco ciò che possiamo offrire. In questo giubileo ci è chiesto di superare l’idea, molto presente, del successo come cifra dell’uomo realizzato, di spogliarci della ricerca dell’essere perfetti, cioè di essere sempre adeguati a tutto. Nelle parole di Gesù ci è consegnata un’altra strada, quella della piccolezza, quella di fare i conti con le nostre fragilità, con le nostre inadeguatezze perché è in quel momento che il Signore opera ed opera efficacemente. Quanto è liberante un’esistenza sciolta da questo appesantimento!

Il capovolgimento del primato del successo e della ricerca continua di essere perfetti è vangelo.

Non è che tanta stanchezza e oppressione che percepiamo in noi siano il risultato di una corsa vana a raggiungere prestazioni che rivelano il nostro orgoglio mai sazio? Venite a me, smettete gli abiti di coloro che cercano di primeggiare, perché – ci ricorda Francesco –  la povertà è sorella se e quando equivale alla consapevolezza di non poter disporre di nulla di cui vantarsi, se non della croce di Gesù Cristo e del Suo amore per noi e per tutti.

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