Nei giorni scorsi il carcere delle Novate è venuto alla ribalta nazionale per la notizia di disordini, di una rivolta di alcuni detenuti. Occasione per denunciare il suo sovraffollamento e gli inevitabili disagi. Abbiamo letto di clima pesante e di tensione, che non risparmia nessuno, neanche chi vi opera.

Tutto ciò va ad alimentare il pensiero diffuso del carcere come luogo dove si concentra un problema sociale e di ordine pubblico, identificandolo semplicemente con la presenza di un’umanità da tenere a distanza di sicurezza. Cosa che tende a confermare chi esprime quel giudizio inappellabile di rinchiudere a chiave queste persone e gettare la chiave. È la attualizzazione del clima del venerdì che abbiamo appena trascorso: “Crocifiggilo! A morte!”.

Poi, dopo il venerdì sorge il mattino del sabato. Il giorno del tempo dilatato, dove regna il silenzio. Il momento in cui si fa strada la sensazione, che penetra la carne, che sia tutto finito. Dopo ciò che è accaduto entra nella testa e nel cuore che la vita sia stato un grande fallimento. Sei un fallito. Così la vita si conclude in un sepolcro chiamato detenzione, della quale non si intravvede la conclusione.

Anche la società civile, per un’istintiva azione di difesa, ci rotola una pietra che sancisca la presa di distanza. L’allontanamento della minaccia. Ma il sabato è abitato anche da domande, da verità mai dette a sé stessi, da sentimenti strozzati in cuore. Da un’umanità che sembra fiorire con sorpresa proprio lì dove la vita sembra ridotta alla sopravvivenza. Ci vuole coraggio e una fiducia divina abitare così il sabato, convinti che la sua notte è il preludio delle prime luci dell’alba. Del mattino di Pasqua.

Nel carcere è possibile che avvenga una rinascita, che germogli vita nuova. Una novità che ha bisogno di artigiani di speranza che sanno guardare dentro e oltre ogni venerdì di morte e di fallimento per scorgervi germogli inattesi. Ci vuole il coraggio di scommettere che l’umano sia sempre in grado di dare frutti. C’è bisogno di zappare per aprire terreni incrostati da cattive abitudini, senza sradicare con la zizzania il grano. C’è bisogno di concimare con la pazienza e la fiducia. Non è una missione impossibile.

Anche alle Novate ci sono questi artigiani, sia tra i volontari che tra quanti operano professionalmente. Si dovrebbero fare lunghi elenchi, con il rischio di dimenticarne qualcuno. Vorrei solo ricordare Fabrizio Ramacci, fondatore e presidente della Cooperativa sociale “Orto botanico”, di recente scomparso in modo improvviso. È tra i tanti (forse ancora pochi) che hanno scommesso sull’umanità ferita e magari deragliata.

Ma vorrei che dalla nostra casa circondariale uscissero, per onestà, anche altre notizie. Sicuramente buone. Mi riferisco alla Via crucis, che ho definito Via lucis, realizzata pressoché in toto dentro al carcere. Le meditazioni sono il frutto di dialoghi tra detenuti e giovani che si sono affiancati nel cercare di far uscire una parola di speranza dai tanti calvari lì rinchiusi. La sera del Venerdì santo queste meditazioni ci hanno accompagnato nella Via crucis cittadina. Sono state pronunciate idealmente dalla voce di chi le ha fatte emergere da angoli nascosti della propria storia.

Ci siamo lasciati accompagnare e guidare da storie ‘sbagliate’, da storie di venerdì di passione per riuscire tutti a rotolare via tante pietre del pregiudizio che inchiodano le persone in un passato colpevole. Ma comunque passato.

Mi viene allora spontaneo dire che l’augurio più vero e più credibile di buona Pasqua oggi ci viene dai nostri detenuti e detenute: la pasqua di risurrezione è possibile. È la loro e la nostra speranza.

Fonte: Libertà, quotidiano di domenica 20 aprile 2025