At 4,32-35
1Gv 5,1-6
Gv 20,19-31
Dal lontano 1617 in questa domenica la comunità di Piacenza si affida alla Madonna del popolo, ricordando l’incoronazione della statua di Maria Madre e del figlio.
Questo titolo, da quello che possiamo immaginare, dice di un affidamento di tutti a Maria, in particolare di coloro che essendo identificati genericamente sotto la categoria sociologica di “popolo” non avevano altro riconoscimento. Erano “tutti gli altri”, quelli che non avevano voce, che senz’altro non avevano le tutele che conosciamo noi, che pativano le incertezze di una condizione che dipendeva troppo da altro e da altri.
Sotto quel manto che rivestiva Maria il vescovo Rangoni aveva voluto porre la città tutta, senza differenze.
Dire che anche oggi, in questo nostro contesto sociale e civile, l’incertezza, con la minaccia del possibile contagio, è diventata democratica. Veramente tutti potenzialmente vittime, con esiti indifferentemente imprevedibili. Fanno arrabbiare per un verso e sorridere per un altro quei comportamenti dei cosiddetti ‘furbetti del vaccino’. Di chi vuol salvare la propria pelle a scapito di altri (magari più fragili e sicuramente con meno conoscenze che contano). Sono i colpi di coda del nostro debito con l’individualismo egoista e miope.
Questa festa ci riconduce a ciò che dovremmo avere scoperto (parlo al condizionale) in questo tempo: che siamo sotto lo stesso manto, che è quello della condivisione della medesima condizione. Per troppo tempo abbiamo costruito relazioni fondate sul primeggiare, sul raggiungere maggiori disponibilità, in definitiva sulla disparità. Ma è una logica che in questa situazione pandemica si è dimostrata illusoria e inconsistente. Siamo tutti, nella nostra umanità, vulnerabili. E solo costruendo relazioni di cura reciproca di responsabilità (ad es. il rispetto delle norme di comportamento imposte) potremo riacquistare quello che desideriamo tutti: uscire dalle restrizioni dell’emergenza. La festa della Madonna del popolo ci consegna allora ad una verità: che quel manto che ci protegge è tessuto da noi. Noi siamo al contempo fili e tessitori; custodi e custoditi. Autori di una protezione più grande di noi, ma che non è possibile senza di noi.
E vorrei in questo momento ricordare un altro anniversario. Il mio predecessore, mons. Luciano Monari, volle 23 anni fa che in questa occasione fosse inaugurata la Casa della Carità. La Casa della Carità fu pensata come un segno per la parrocchia, per il vescovo stesso e per la città, di un richiamo forte alla carità. Un luogo dove la carità abbia casa. Stabilmente. Al centro Gesù con i tre pani (della Parola, dell’Eucaristia e del Povero). In particolare presente e vivo nel più piccolo, fragile, povero e per questo facilmente ridotto a scarto. Quindi senza valore sociale e relazionale.
Rimettere al centro i più poveri ha la forza di cambiarci più di quanto riusciamo per altre strade. Perché i piccoli (del Vangelo) ci ridimensionano dai nostri deliri di potenza. Ci riconducono a ciò che è essenziale. Semplificano la vita.
Ma cosa è successo in questo anno abbondante di pandemia? Non abbiamo forse ricentrato le nostre attenzioni sui più fragili (anziani-bambini-giovani)? …ma alla fine non abbiamo messo al centro la nostra fragilità e debolezza, abbandonando quella presunta forza che ci faceva sgomitare per primeggiare?
E se, profeticamente, oggi la Casa della Carità fosse la metafora della città? Della nostra città? Di ogni convivenza? Una porzione che anticipa ciò che dovrebbe essere il tutto? Dove la forza diventa la nostra fragilità e la nostra vulnerabilità. Messa al centro delle relazioni, personali e civili. In questo modo non correremmo il rischio di dimenticare velocemente quello che ci è stato insegnato.
D’altra parte ce l’ha ricordato la Parola di Dio ascoltata. La vittoria, che il Risorto è venuto a realizzare, è fondamentalmente la vittoria sulla paura (“erano chiuse le porte del luogo dove si trovavano i discepoli per timore dei Giudei”). La minaccia più grande per ognuno e per la comunità cristiana è proprio la forza della paura. Per paura erano fuggiti, per paura Pietro aveva rinnegato Gesù… Per paura. Timore di essere derisi, messi ai margini, rifiutati. Paura di non contare nella società e negli ambienti di vita… Paura di non essere considerati. Paura della morte. Sono queste le paure di allora e di oggi.
Gesù, una volta risorto, entra nelle paure dei discepoli, nelle nostre paure. E notiamo con quanta delicatezza: “Venne e stette in mezzo a loro”. Gratuitamente viene, senza che i discepoli possano rivendicare alcun diritto, dopo il loro comportamento. E prima di parlare sta in mezzo. E non li rimprovera! Mostra loro semplicemente i segni della passione: quei segni della croce li porta con sé perché non sono solo segni di violenza, di prevaricazione ingiusta, segni di una violenza che ha una forza che si prolunga nel tempo e che non può essere facilmente cancellata, il male subìto ti rimane addosso… sono anche e insieme segni del Suo amore. Deliberatamente ha scelto di dare la sua vita. E che cosa rivela questo? Le piaghe del risorto ci dicono che il male, il potere politico o religioso con i suoi soprusi, la forza esibita per eliminare l’altro… tutto ciò che è raccolto nella Passione di Gesù, ha una vittoria solo apparente, temporanea. Gesù vince e continua a farlo con la forza dell’amore, dell’offerta di sé. Con la forza della fede.
Chiediamo allora a Maria del popolo questa grazia per ciascuno e per tutta la città: di vivere da risorti, da rigenerati dalla passione che ci è parsa la fine di tutto, ma che invece può diventare un nuovo inizio. Una rinascita a partire dalla fragilità che ci accomuna e che può diventare sorgente di carità. Di tutti e per tutti.