Ap 12,10-12a
2Cor 4,5-12
Gv 12,24-26
Annualmente S. Antonino raccoglie, come Patrono della città oltre che della diocesi, la comunità cristiana e quella civile. Ringrazio le autorità presenti che rappresentano così il convergere di tutte le realtà istituzionali verso un riferimento che storicamente invita ad oltrepassare ogni (legittima) differenza. Idealmente il Patrono indica ciò che deve animare ogni realtà presente nel territorio urbano, ossia la ricerca di un bene di tutti e per tutti. L’accento oggi è posto sulla città, sull’essere comunità. La città, a motivo di una cultura sempre più pervasiva dell’“io-isolato”, rischia di ridursi ad un puro recipiente che offre dei servizi il più efficienti possibili. Ma un io-isolato è destinato a patire una solitudine inesorabile. In questa cultura l’identità di ciascuno è immaginata oltre, fuori delle relazioni che, al contrario, ci plasmano. Perché ciascuno è il frutto non solo delle relazioni familiari, ma anche dell’ambiente nel quale vive. E della qualità di tali relazioni. Non è affatto un discorso teorico. È molto concreto: il modo di comprenderci e la responsabilità di prenderci cura affondano qui le loro radici. Non qualsiasi contesto familiare, di vicinato, non qualsiasi ambiente scolastico o aggregativo, ecclesiale o ‘politico’ (nel senso che riguarda la polis) produce lo stesso effetto. Ma anche il contesto urbanistico fa la sua parte: vivere in spazi belli non è la stessa cosa che vivere in spazi degradati.
Quando al contrario prevale l’idea di un “Io” che si costituisce ‘per contro proprio’, si è sollecitati a rivendicare diritti individuali sottovalutando che per questa strada si rischia di alimentare conflitti e di generare povertà e debolezze in chi non ha voce o è socialmente, culturalmente e politicamente meno forte.
Dovrebbe essere interesse di tutti garantire una convivenza accogliente, ospitale.
Potremmo far nostra l’espressione che s. Paolo usa per dire come la vita di Gesù, la sua potenza in noi è come un “tesoro in vasi di creta”. Un’immagine efficace anche per pensare che la grandezza della nostra convivenza, che è un tesoro che ci arricchisce, è contenuta in qualcosa di fragile, di vulnerabile. Una tale consapevolezza ci obbliga ad impegnarci tutti a difendere e a custodire la dinamica sociale, civile della nostra città. Soprattutto promuovendo la qualità delle relazioni. A partire dai più deboli.
Sono testimone, e oggi colgo l’occasione per metterlo in evidenza, che l’emergenza sanitaria ha avviato una rete tra vari soggetti del nostro territorio che ha permesso, con il progetto “Insieme Piacenza”, di creare una rete di solidarietà. Questo progetto sta diventando una realtà stabile, prova ne sia il fatto che senza particolari difficoltà si è dato vita al progetto “Energia in comune” (riconosciutoci come esemplare a livello nazionale) per venire incontro all’aumento della spesa per le utenze. Lo stesso sta avvenendo anche per iniziative di promozione culturale. E la cosa interessante è il coinvolgimento alla rete di altri soggetti. Possiamo dire che assistiamo ad un circolo virtuoso a favore di una convergenza sempre maggiore nel voler contribuire a sviluppare questa cultura della cura del con-vivere.
Sono molte le sfide che, con competenze specifiche, ci attendono in vista di creare un ambiente, una città, un turismo ospitale, che combatta il nemico più pericoloso, vale a dire la paura che rende il vaso sempre più debole. Ed insieme anche il tesoro si depaupera.
Attorno al tema dell’ospitalità potremmo interrogarci tutti. Perché l’accoglienza, che ci fa ospitali, non può essere selettiva. Certamente l’ospitalità verso i profughi ucraini si è espressa in forme molte belle e importanti. Ma devono preoccuparci i segnali che indicano le resistenze all’ospitalità. La cosa sta diventando sempre di più un’emergenza. Da tempo persone o famiglie immigrate, con regolare permesso di soggiorno e con contratti di lavoro non riescono a trovare casa. La cosa si è poi allargata ai lavoratori precari o alle categorie più fragili. Ora sta raggiungendo gli studenti universitari che faticano a trovare casa e a prezzi sostenibili. Mi chiedo se tra i motivi che spingono molti giovani ad andare all’estero non ci sia anche la percezione che lì è più facile mettere su casa. Magari trovando ospitalità in famiglia.
Lo sappiamo che la fiducia verso un luogo e verso il futuro si misura anche sulla percezione di trovare posto, che ci sia un posto anche per me. La saturazione di un ambiente allontana.
Potremmo allargare il discorso ai più piccoli, ai bambini. Agli studenti. Quali ospitalità assicuriamo per le loro attività, per il tempo libero…?
Ma desidero richiamare un’altra attenzione. Abbiamo una città bella e ricca di storia, di tradizione, di cultura. Credo sia un’urgenza progettare, in uno sforzo condiviso e trasversale, il recupero di quegli spazi abbandonati, in disuso, occupati fino a tempo fa da caserme. Una città deve essere ospitale anche nella riqualificazione urbanistica. Siamo consapevoli che la soluzione non è semplice, ma dobbiamo avvertire la cosa come necessaria. Se non c’è motivo, non possono permanere dei “limiti invalicabili”. Questi spazi recintati devono essere aperti e abitabili e non solo da attività commerciali. Il concorso deve essere di tutti. Penso in particolare a quelle realtà che sono approdate nel nostro territorio con gli insediamenti della logistica. Che cosa possiamo chiedere perché il nostro territorio possa ricevere parte del profitto dei loro investimenti?
Sant’Antonino ci consegna la responsabilità della cura di un tesoro nel quale c’è la ricchezza del patrimonio di fede e di cultura civica che riceviamo. Ogni realtà umana, storica è ‘vaso di creta’, ma non si dà tesoro che in questo modo.
E ritengo una straordinaria coincidenza che l’Antonino d’oro quest’anno sia consegnato alla comunità monastica della Carmelitane. Esse sono a servizio, così come l’altra comunità monastica benedettina, del cuore di ogni esistenza. È il richiamo forte, nel ‘già’ del tempo in cui viviamo, di un ‘non-ancora’ che è una promessa senza la quale l’esistenza collassa su sé stessa. Implode. Perché solo se rimaniamo radicati in Qualcuno che ci trascende possiamo vincere la paura che, come è stato scritto in questi giorni, sembra essere la profonda e vera minaccia alla speranza e perciò alla vita. La paura è ciò che ci indebolisce, dal di dentro, da dentro di noi. S. Antonino protegga, custodisca e renda ospitale la nostra città. Tutta intera.
Piacenza, 04.07.23