Es 22,20-26 1Ts 1,5c-10 Mt 22, 34-40
È bello e ci deve sorprendere il fatto che con la presenza di questi fratelli immigrati la nostra comunità cristiana si arricchisca di feste, fino a poco tempo fa a noi sconosciute, di espressioni devozionali che non devono solo incuriosirci. In esse è cresciuta la loro fede e continua ad alimentarsi. Tutto questo è il segno che la presenza tra noi di queste persone amplia il nostro orizzonte e ridimensiona un diffuso concetto di cattolicesimo centrato sul nostro patrimonio storico europeo (se non italiano). Ieri nel Convegno missionario diocesano ci è stato ricordato che il medesimo Vangelo di Gesù Cristo prende il volto del contesto dei credenti che lo accolgono.
Il comando del Signore, ascoltato nella pagina dell’Esodo, di non molestare né di opprimere il forestiero, come di non maltrattare vedova e orfano, custodisce più di un gesto di cura (già importante): essi diventano una benedizione che passa attraverso la loro presenza accolta e custodita. Sono convinto che ci sia ancora spazio per una conversione a riguardo.
Mi rivolgo prima di tutto a voi, cari fratelli peruviani, ai quali è molto cara questa festa. Portate nel bagaglio che vi accompagna con tutto ciò che vi è necessario per vivere in terra straniera, anche questa tradizione. Leggendo a suo riguardo, ho appreso che si tratta di un dipinto del Cristo in croce realizzato nel 1650 da uno schiavo angolano, nella parrocchia di Pachacamilla, a Lima. La devozione prese avvio a partire dal fatto che esso rimase intatto nel terribile terremoto di qualche anno dopo, come pure di quelli che si succedettero a Lima. Il 28 ottobre, anniversario del terremoto del 1746, c’è la tradizione di portare la copia dell’immagine in processione passando per gli ospedali, per giungere al Palazzo del Governo e al Municipio. Dal 2010 è stato proclamato patrono del Perù. L’uso del colore viola è legato al ricordo dell’abito portato dalle religiose particolarmente legate al servizio di questo santuario. E nello stesso ricorda che ogni momento di festa prevede una conversione, che ha in sé un richiamo penitenziale. Questa in estrema sintesi la storia.
Raccogliamo prima di tutto il gesto che ha originato questa tradizione: la mano di uno schiavo che dà volto a Colui che si è fatto servo/schiavo, che si è spossessato della sua vita per amore. L’amore non può essere incatenato. Addirittura questo schiavo proveniente dall’Africa sembra aver riconosciuto che proprio questo crocifisso riscatta (è questo il significato di ‘redentore’) la dignità dell’uomo, di ogni uomo, perduta per qualsiasi causa. Perché c’è una qualche forma di schiavitù in ciascuno di noi. Non solo, ma nella sua opera questo schiavo esprime una libertà dello spirito che nessuna condizione di schiavitù è in grado di limitare o impedire. Quante situazioni ancora oggi ce lo testimoniano? E, al contrario, quanta presunta e illusoria libertà mortifica l’umano, rendendolo schiavo?
In questo dipinto viene dato volto all’Amore compiuto, quello di Gesù sulla croce. E, a questo riguardo, ci viene incontro la pagina del Vangelo che la liturgia odierna ci ha proposto. Alla domanda subdola, perché l’intenzione è “di metterlo alla prova”, su quale sia il comandamento più grande, Gesù fissa tra i ‘due’ amori (a Dio e all’altro) un legame, così da farli diventare indissociabili. Uno non sta senza l’altro. Uno invera l’altro. Nella croce Gesù in persona invera, manifesta questa unità: infatti nel momento in cui mette il Padre e la sua volontà al di sopra di tutto (vive l’amore con tutto sé stesso e in modo definitivo) esprime tutto l’amore per l’umanità intera (di ogni tempo e di ogni latitudine). Gesù, in modo disarmante, dice: è tutto qui! Dio non chiede tanto, chiede tutto. L’amore verso l’altro è amore per te. Se vuoi amare veramente te stesso, ama chi ti è prossimo, colui o coloro che non scegli perché ti sono dati. Perché l’amore verso di loro ti può salvare.
Allora qual è il miracolo che oggi chiediamo al Signore? Di entrare in questo Amore. Che il Signore combatta in noi, con noi, ogni forma di priorità e di misura (chi per primo? E quanto devo amare…?). Questa esigenza evangelica è per tutti e di tutti, al di là della provenienza, dell’appartenenza ad una tradizione religiosa rispetto ad un’altra. È la via universale che Gesù ha percorso: via di libertà, di vittoria e di riscatto da ogni forma di schiavitù.
CATTEDRALE – 29.10.23