PIACENZA – 01.11.22
Ap 7,2-4.9-14
1Gv 3,1-3
Mt 5,1-12
Questo luogo, che nella tradizione è chiamato campo-santo per indicare la preziosità e dignità sacrale, è uno spazio umano minacciato. Minacciato culturalmente, perché segnato dalla tendenza a oscurare il suo significato, sotto i colpi di una visione privatistica del vivere (del dolore/morte/lutto). Pensiamo alla pratica che si sta diffondendo di tenere le ceneri in casa o di disperderle. Minacciato praticamente dai nuovi tabù: perché c’è una rimozione dei segni della morte e del morire, producendo peraltro un’ansia legata all’esperienza della nostra limitatezza. È minacciata anche religiosamente, perché anche la fede cristiana rischia di smarrire l’annuncio della speranza che qui ha una delle sue espressioni. Il cimitero per lo più si riduce a luogo di ricordi, più che essere annuncio di futuro.
In questo modo la città stessa, vale a dire la nostra convivenza, subisce danni gravi: di perdita della memoria e perciò della storia di cui siamo frutto; di perdita di prospettiva, di profondità perché c’è un oggi che sembra esaurire tutto, quando al contrario deve fare i conti con un limite, una conclusione ineluttabile e insieme non prevedibile. Richiama, in definitiva, la misura e la serietà del tempo che ci è dato. Da amare e da servire.
Il cimitero, se è un luogo dove sembra prevalere la morte, in realtà parla della vita, parla di generazioni in minima parte note, in gran parte a noi sconosciute. Ma non per questo irrilevanti. I tasselli a noi conosciuti sono una minima percentuale del puzzle dell’esistenza personale e collettiva. Possiamo dire anche di questa moltitudine: sono quelli che vengono dalla grande tribolazione della vita. Ci hanno consegnato una terra bella perché tribolata e vissuta nella passione oltre che per il loro presente, anche per il nostro.
Allora beati questi giorni, questo rito collettivo che riconsegna alla città la memoria necessaria e grata. Che riconsegna un luogo da abitare perché la morte, quella del cuore, non invada le nostre piazze e palazzi, le nostre case e i nostri cuori. E per noi, che crediamo nella risurrezione, per noi che qui ora celebriamo la Pasqua del Signore, questo luogo ci parla della vita di Dio e della vita in Dio. Un paradiso (così lo vogliamo immaginare) abitato dalla beatitudine che ha preso carne, volto, mani e cuore. Ma di quelle beatitudini evangeliche oggi c’è il loro compimento: se qui ci sono state le lacrime, le sofferenze patite a motivo dell’ingiustizia e a causa della violenza… ora il futuro promesso è presente, è attualità. Questa moltitudine che non si può contare vive nella promessa di Dio. Altrimenti avrebbe poco senso tornare qui.
Non possiamo, rischio eliminare l’orizzonte della vita umana, fermarsi ai nostri ricordi. C’è una esistenza che continua e quindi relazioni che si compiono. Perché la loro presenza rimane in una forma di comunione, di forza del bene che hanno vissuto e che continua a generare. Come pure nella presenza di intercessione, perché l’appello alla santità continui a risuonare e a riscaldare il cuore. I nostri cuori.
La grande tribolazione, che rappresenta la prova della vita, rimane la via perché cresca in noi l’esperienza di figli/e, per i quali ciò che siamo non è stato ancora rivelato, mostrato. Non si è ancora compiuto in pienezza. Per questo possiamo credere che il bello deve ancora venire.




