Lc 1,39-45
Appena Maria si trova sola, custode dell’annuncio dell’angelo, si alza (è il verbo della risurrezione), si mette in cammino per raggiungere in fretta una citta di Giuda. Pur indagando il testo evangelico, non riusciamo a comprendere con precisione il perché di questo suo andare, né della fretta che lo caratterizza. Per vedere il segno indicato dall’angelo? Per raccontare la gioia e la sorpresa di ciò che ha vissuto e la novità che porta in sé? Per aiutare la cugina? Tutte ipotesi. Ma niente di certo. O meglio, di sicuro va a visitare la cugina. Ha mille motivi per farlo.
La vita è movimento. A volte sono movimenti verso qualcuno, un movimento fisico. Altre volte è un uscire dal proprio piccolo mondo per fare entrare in esso il mondo, l’esistenza di qualcun altro. Andare a visitare è accettare la sfida dell’incontro, è correre il rischio di qualcosa di inaspettato. L’esito non è mai prevedibile. Infatti è affidarsi all’ospitalità dell’altro.
Il primo gesto che troviamo in Maria è veramente carico di valore. Visitare è un atto impegnativo ed estremamente delicato. La visita prevede una partenza (con il necessario lasciare la propria casa), un cammino (più o meno disagevole), l’entrare in uno spazio che non ti appartiene (spazio fisico, la casa di un’altra persona; ed insieme spazio umano, esistenziale, il suo mondo). Il segno che si tratti di un gesto discreto noi lo sottolineiamo chiedendo: “è permesso?”. Cioè, se mi è permesso entrare. Non ho nessun diritto. Perché la visita non si esaurisce a questo punto: essa chiede e suscita una risposta, che ha la forma dell’accoglienza: “Avanti!”. La visita, se prende avvio dall’iniziativa di qualcuno, si compie nel momento in cui essa viene accolta. Si dà infatti anche la possibilità che la porta non sia aperta. L’andare può incontrare un doloroso rifiuto.
Maria lascia la propria casa (alla quale ritornerà, ci dice il vangelo: “Maria rimase con lei circa tre mesi, poi tornò a casa sua”, Lc 1,56). Non porta con sé che la vita divina che c’è in lei. Non va “a mani vuote”. Non porta qualcosa, porta sé stessa con l’annuncio dell’angelo accolto in sé. Porta il dono ricevuto per incontrarne un altro. L’una e l’altra hanno in sé una parte della rivelazione di Dio agli uomini.
Come potrebbero cambiare le nostre relazioni se nascessero da questa duplice consapevolezza: io porto un dono allo stesso modo dell’altro che incontro. Doni che non dipendono da noi! L’incontro come scoperta e rimando del dono che siamo.
A volte c’è pigrizia (‘mentale’), gli impegni/affanni della vita, il timore di misurarsi con l’altro (“cosa devo dire? Come devo comportarmi?”) che impediscono di sperimentare il dono che è l’altro, anche solo come motivo di provvidenziale inquietudine. Rinunciare o dilazionare gli incontri ci sottraggono la possibilità di sperimentarci anche noi come dono, così come l’altro mi rinvia.
La visita, come ricordavamo, è un gesto delicato, tanto è vero che essa è temporanea: come si è entrati da quella casa, se ne esce. Non è occupare lo spazio dell’altro, quanto essere ospitati secondo la misura dell’ospite. Anche per questo siamo invitati a vigilare: oggi tendiamo ad irrompere nella vita degli altri, senza lasciare una zona di rispetto. Forse anche a motivo di questo diventiamo sempre più sospettosi e restii a far entrare le persone a ‘casa’ nostra. Difensori strenui di una intimità, ci precludiamo di assaporare il profumo della relazione.
Il racconto di questa visita ci narra che Elisabetta è visitata dalla Parola e dallo Spirito Santo: “(…) udito il saluto di Maria… fu colmata di Spirito Santo”. Il Vangelo non ci dice che Elisabetta abbia reagito alla vista della cugina Maria, ma solamente al suo saluto (è evidente il richiamo all’angelo Gabriele!), quasi che ora sia Maria l’inviata da Dio. A quel saluto il bambino le sussultò in grembo. È l’esultanza della vita generata in lei dal Signore. E’ la vita di grazia che la fa esplodere in un inno di benedizione. È da ritenere che qui sia concentrato tutto ciò che avvenne in quei tre mesi, carichi di confidenze e di partecipazione spirituale, di amicizia e di sostegno reciproco.
Un incontro tra due donne, raggiunte da una Parola feconda che culmina con una benedizione. Elisabetta benedice Maria per la fiducia mostrata nel compiersi di una Parola sorprendente e imprevedibile. Elisabetta vede in Maria l’anticipazione della fede e dell’abbandono richiesto in ogni generazione (ripreso da Maria nel magnificat: “d’ora in poi tutte le generazioni mi chiameranno beata”). Così appare chiaramente che il sì di Maria la trascende, è suo e allo stesso tempo è lanciato come benedizione attorno a lei e nei secoli futuri. È la grandezza dell’opera di Dio in noi: Egli rende la nostra libertà partecipe dell’opera universale di salvezza. Al contrario di quello che noi pensiamo in Dio la nostra libertà non viene limitata, Egli dilata la forza delle nostre decisioni che rispondono alla sua chiamata.
È così che succede: l’altro/a mi parla di Dio, mi porta la sua presenza che continua a suscitare domande (“perché mai mi sta succedendo questo? Perché il privilegio di essere visitato da Dio attraverso di te?”). L’altro mi conferma che il Signore continua a visitare la mia casa, la mia tenda. E l’altro/a sono l’appello di Dio a farlo entrare nella mia casa, nella mia vita come portatore di benedizione.