Is. 61, 1-2.10-11
Domenica scorsa abbiamo riscoperto la necessità e la forza della Parola per consolare. La parola con la “P” maiuscola: la “Parola del Signore”, ma in essa anche la nostra parola, le parole appunto pronunciate cuore a cuore.
In questa pagina il profeta Isaia, probabilmente nel periodo del ritorno dall’esilio, rilancia il cammino per un popolo che, nonostante il ritorno nella propria terra, non ha ritrovato la fedeltà al Signore.
A ricordarci che è fuorviante attribuire solo a cause esterne, allora l’esilio, oggi magari è la pandemia o qualche altro motivo. Attribuire a cause esterne solamente la condizione, le fatiche che stiamo vivendo. C’è altro, ci sono io; ci sono le mie resistenze, le mie tiepidezze; c’è il mio cuore diviso in tanti amori; ci sono le mie schiavitù. E tutto ciò che continua a incatenarmi.
Ecco, attraverso questa pagina profetica noi possiamo leggere un movimento che parte da Dio e che ci avvolge. Un movimento appunto, che è appunto rappresentato da quei tre passaggi che vi voglio ricordare: “Lo Spirito del Signore è su di me” e poi: “ mi ha rivestito delle vesti di salvezza”; e ancora: “Mi ha avvolto con il mantello della giustizia”.
Proviamo a ripercorrere questo movimento. “Lo Spirito del Signore è su di me perché mi ha consacrato con l’unzione”; lasciatemi una confidenza: vorrei ricordare il momento della mia ordinazione episcopale nel quale il Vescovo ordinante mi ha versato sul capo dell’olio, il crisma. Vi assicuro che la sensazione che ho vissuto in quel momento era di abbondanza, mi son detto: “ma quanto ne ha messo?”. In realtà una piccola quantità di olio suscita una sensazione ben diversa. E’ quasi l’immaginazione che l’olio versato fosse lasciato fluire sul capo e poi sul corpo; la sensazione, appunto, di essere avvolto, di essere penetrato da quell’olio. E’ la sensazione più bella che possiamo immaginare di che cos’è la consacrazione: tutto di te è attraversato, è unto in un abbraccio dall’amore di Dio. L’abbraccio di Dio penetra come l’olio e rimane attaccato alla pelle. Dovrebbe rimanere impresso nella memoria indelebile della nostra identità quell’atto di consacrazione: io sono in quell’abbraccio. In quanto consacrati nel battesimo siamo uniti a Cristo, alla sua persona, al suo amore, alla sua esistenza donata.
L’abbraccio dello Spirito Santo ci porta a dire con San Paolo: “non vivo io, ma Cristo vive in me”. Ecco l’abbraccio che dal primo momento ti fa sentire partecipe di un piano di salvezza. E’ un abbraccio, non una fusione, Gesù è e rimane altro; altro da me e mi consegna una dignità e una responsabilità che sono uniche, singolari. Infatti il testo aggiunge: “mi ha mandato”, mi affida una missione la mia, che solo io sono chiamato a svolgere, perché la sua opera si compie anche attraverso di me, attraverso il mio andare.
Ricordavo prima gli altri due passaggi: “mi ha rivestito delle vesti di salvezza” e “mi ha avvolto con il mantello della giustizia”. Rivestito e avvolto con vesti, con mantello. A me ha evocato questo passaggio quel gesto pieno di misericordia, di tenerezza che troviamo nel libro della Genesi al capitolo 3, dopo il peccato a causa del quale Adamo ed Eva conobbero di essere nudi.
Ci è detto che il Signore Dio “fece all’uomo e a sua moglie tuniche di pelli e li vestì”.
Le vesti di salvezza sono l’abbraccio che dà dignità perché riveste la nostra nudità. Vale a dire la povertà costitutiva, la fragilità, la vulnerabilità, l’essere minacciati appunto nella nostra debolezza. L’abbraccio misericordioso, e qui non possiamo non ricordare anche l’abbraccio del padre misericordioso verso il figlio che torna; l’abbraccio misericordioso ci sottrae dalla reale possibilità di perderci, di smarrirci.
Ecco l’altro gesto che Dio mette in atto: l’abbraccio che ci riscalda, che ci rende giusti, capaci cioè di ritornare alla nostra condizione di figlio e di figlia; che si fidano del Padre e che si affidano a lui.
Giustizia che poi corregge le relazioni malate che spesso abbiamo tra di noi, trasformandole a partire della nostra condizione di figlio e di figlia, trasformando le relazioni in relazioni fraterne.
Abbracciati, liberati, salvati e per questo inviati: “Mi ha mandato”. Se in quell’abbraccio io esisto, in forza di quell’essere avvolto, divento giusto, allora il mio andare è prolungare lo stesso abbraccio di Dio. Con esso unisco la mia esistenza al povero, all’afflitto, allo schiavo, al prigioniero. Il mio destino è abbracciato, unito al loro.
In questo modo divento messaggero della buona notizia di liberazione. Purtroppo in un passaggio successivo che la liturgia non ci propone, ma che vorrei recuperare, subito dopo ritorna ancora il verbo “consolare”. “Mi manda a promulgare l’anno di grazia del Signore, il giorno di vendetta del nostro Dio per consolare tutti gli affitti”. Allora, non solo con la parola parlando cuore a cuore, si consola, ma anche con un annuncio che si fa vicinanza, prossimità che si fa abbraccio. Abbraccio che, mentre scalda il cuore di chi è abbracciato, nello stesso momento produce un effetto benefico anche in colui che stringe nell’abbraccio l’altro. L’abbraccio è uno, per entrambi. Tutti e due in quell’abbraccio non si sentono più così soli. E nell’abbraccio respiro la tua umanità, della quale anch’io ho bisogno.