Cattedrale di Bobbio
Is 49,3.5-6
1Cor 1,1-3
Gv 1,29-34
Il diaconato, in vista del presbiterato, è una tappa di passaggio, ma non significa che sia un abito provvisorio da indossare per poi smettere, una stola messa – come vedrete – in obliquo che verrà successivamente raddrizzata. Le tappe sono parte del cammino nel senso che custodiscono i riferimenti spirituali e pastorali propri della vita e del ministero del presbiterato.
Il diaconato è la porta d’ingresso del sacramento dell’ordine che, di fatto, rimane ben presente anche in futuro. Il tempo che vivrai come diacono – caro Paolo – è il tempo nel quale maturare la dimensione dell’essere servo, del servizio gratuito che attraversa anche gli altri gradi del sacramento. Quindi la condizione di diacono va assunta in modo permanente, di modo che, se il Signore vuole, essa segni anche il presbiterato. Perciò non si tratta di capire cosa un diacono può fare o non può fare (rispetto al presbitero), quanto piuttosto cosa è chiamato a diventare, nel suo essere per Gesù e per i fratelli.
Perché se il riferimento del servizio è l’essere servo, questi non può cercare né pretendere alcun vantaggio, né economico, né di prestigio o di riconoscimento sociale o comunitario. Esso si esprime dentro l’orizzonte della gratuità che sarà cercata e maturata un po’ alla volta nel servizio che ti sarà affidato, soprattutto verso chi immediatamente non può ricambiare. Una caratteristica questa del servizio che richiede purificazione e conversione nelle motivazioni, quelle vere, per le quali facciamo le cose.
La Liturgia della Parola della II domenica del Tempo ordinario, ci/ti offre il riferimento della chiamata al diaconato. È provvidenziale che la prima lettura ci presenti uno dei “Canti del Servo di Jahvé”, che rinvia efficacemente all’origine di questo ministero. Non è l’ambizione che lo genera, è una azione di Dio: “Mio servo tu sei”, “Ha parlato il Signore, che mi hi ha plasmato dal seno materno”. Con la sua Parola il Signore dichiara che oggi siamo davanti ad un’opera che parte da lontano e che ha come primo strumento proprio chi ci ha messo al mondo. Attraverso la cura di nostra madre noi siamo introdotti nella grammatica del dono. La gratuità del dono, il modo del farsi servo noi l’apprendiamo dai gesti più semplici e vitali dell’amore che da sempre ci accompagna, “dal seno materno” appunto. Non solo, “fin dal seno materno”, esprime in maniera efficace il fatto che siamo davanti ad una chiamata che coincide con la nostra identità. Non si fa il diacono, si è diacono: lo si diventa sotto le mani esperte e pazienti di Dio che ci plasma. Come le mani e le dita del vasaio. Ora si capisce perché lo stile diaconale non si può limitare ad una stagione, ad un periodo ‘transeunte’, di passaggio.
E la missione del diacono, così come viene descritta dal Signore, è universale: “Io ti renderò luce delle nazioni perché porti la mia salvezza fino all’estremità della terra”. Per un certo verso il diacono-servo non arriva a dire: “basta così!”. Non ci si può accontentare, perché il Signore ci ricorda che “è troppo poco”. Al diacono è chiesto di maturare la totalità del dono di sé (è ciò a cui rinvia la scelta celibataria) e l’assenza di ogni forma di parzialità (non si è per qualcuno, magari secondo il proprio gusto o le proprie simpatie, ma per tutti). Anche questo profilo del servizio ministeriale non è acquisito una volta per sempre.
Infine un altro tratto dell’essere servo ci è consegnato dal brano evangelico nella figura del Battista che indica, a coloro che gli stanno accanto, Gesù, l’agnello di Dio. “Dopo di me viene un uomo che è avanti a me, perché era prima di me”. Dentro a tutto ciò che può fare anche esemplarmente, il diacono è servizio di Gesù. Lo riconosce e lo indica presente. Lo sa riconoscere perché in sintonia con Lui e perciò ama e lo serve nel povero, nel bisognoso. Il suo modo di stare in mezzo alle persone è un preparare la strada a Colui che è prima: ti dico che cosa c’è prima, all’inizio del mio agire, del mio servizio. C’è Gesù e il suo Amore. Allora è un “prima” non solo di ordine temporale ma un prima di valore: “Servo di Gesù Cristo”. A lui è costantemente riferito, dandogli tempo e cuore. Non parla solo di Gesù perché lo ha in bocca, ma perché lo rende vivo nei suoi gesti, nella scelta di essere per lui, per Colui che è l’Agnello che è offerto perché tutti siamo salvati. Lo fa con l’impegno a vivere lo “spirito di orazione” con il popolo di Dio e per esso.
Tra poco, tra gli impegni che ti prenderai, ci sarà quello di conformare – cioè di prendere la forma, lo stile – di Gesù che dona sé stesso nell’Eucaristia. Venire a contatto più da vicino con il mistero pasquale raccolto nella celebrazione eucaristica è il modo mediante il quale la tua persona si associa a quel “Prendete e mangiate… prendete e bevete…”.
Questa è la condizione perché sia autentica e radicata nell’amore di Gesù la vita celibataria, l’obbedienza, il servizio ai fratelli. È un’opera iniziata in te dal Signore, ma il cui compimento avverrà al termine della tua esistenza. Il Signore ti doni ogni giorno la docilità del cuore perché la sua opera giunga al compimento. E doni alla nostra Chiesa piacentino-bobbiese la responsabilità di custodire e di alimentare il dono che sei per la nostra fede e per il servizio al vangelo. Per tutti.